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A Gisenyi c’è una strada che costeggia il lago. O meglio, costeggia i giardini e i parchi degli alberghi sulla riva del lago. Un mattino, prima della mia partenza per il Congo, mia moglie e io percorrevamo quella strada con l’intenzione di andare sulla miglior spiaggia della città, quella dell’Hôtel Serena, per passare una splendida giornata a sguazzare nelle acque del Kivu, a divertirci con i pedalo e a sorseggiare long drink allungati sulle sdraio. La strada è frequentata da gente che viene dalla campagna, per la maggior parte donne che portano sulla testa panieri di frutta e spesso si accampano per improvvisare piccoli mercati. Ma quel giorno abbiamo incontrato un bambino.
Era stracciato, sudicio e magro. Non sembrava dei nostri, i bambini rwandesi sono puliti, grassi e ben vestiti. Il bambino non era solo, nel senso che aveva un compagno e che questo compagno penzolava da una corda alla quale era appeso per la coda. A volte toccava il terreno e con le zampe anteriori cercava di fare qualche passo, poi si ritrovava a penzolare nell’aria. A volte il bambino lo deponeva completamente sul terreno, permettendogli di camminare con tutt’e quattro le zampe. Ma quando cominciava a credersi uno Yorkshire portato a spasso dal suo padrone, il compagno si ritrovava a ballonzolare nell’aria con le zampe che si agitavano freneticamente in cerca di un appoggio.
Era un ratto, un grosso ratto con uno splendido pelo grigio-argento. Mia moglie e io ci siamo scambiati un’occhiata, poi siamo intervenuti. “Lo vendi?” ho chiesto al bambino. Naturalmente non ha capito, ma per fortuna mia moglie conosce l’ingala (non è per niente è nata in esilio a Goma), così gli ha rivolto la domanda in quella lingua. Come sospettavo, il bambino era congolese e ha risposto. “Sì, lo vendo a un ristorante. I congolesi ne vanno pazzi.” Accidenti, proprio il giorno prima avevo mangiato degli spiedini di pollo. Di pollo? “Lo compro io” ho detto tramite la mia interprete. “Dimmi il prezzo.” “4000”, ha risposto il bambino. Avrei potuto darglieli e farlo felice. In fin dei conti 4000 franchi rwandesi sono appena 5 euro. Ma ho il negoziato nel sangue, negozierei anche sulla pelle di mia madre. Così ho replicato “1000”, pensando che doveva essere il prezzo pagato dal ristorante. Un brusio di disapprovazione si è levato dal gruppo che ci circondava da quando era cominciata la discussione, composto principalmente da donne con la frutta sulla testa. “3500” ha rilanciato il bambino. “1500.” “3000“. “2000.” “2500.” “No, 2000. Prendere o lasciare.” Così ci siamo accordati per 2000.
Seguiti dal gruppo, abbiamo continuato la strada fino a una traversa che si perdeva fra i campi. L’abbiamo imboccata e dopo qualche decina di metri ho detto al bambino: “Slegalo”. Il bambino lo ha slegato. Il ratto è rimasto spiaccicato sul terreno con l’autostima chiaramente ai minimi storici. Gli ho dato un colpetto ed è schizzato via scomparendo fra l’erba. Sono rimasto là un momento per accertarmi che il bambino se ne andasse senza fare il furbo, poi l’ho seguito verso la strada. Ma con la coda dell’occhio ho visto una donna che stava andando nel campo con la chiara intenzione di ricatturare il ratto. “Sparisci!”, ho tuonato. Mi ha preso in parola, è sparita.
A volte abbiamo delle strane reazioni. Ripensandoci, credo che avrei potuto morire per salvare quel topo.
Dragor