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Barack Obama dichiara guerra all'Isis e torna in Medio Oriente

Creato il 12 settembre 2014 da Pfg1971

Barack Obama dichiara guerra all'Isis e torna in Medio Oriente

Barack Obama dichiara guerra all'Isis e torna in Medio Oriente

Il 10 settembre, Barack Obama si è presentato di fronte alle telecamere e ha letto, all’America e al mondo, un discorso che non avrebbe mai pensato di dover dare.

Tre anni dopo il ritiro delle truppe americane dall’Iraq e a due anni dal termine ultimo entro cui anche l’ultimo soldato statunitense lascerà l’Afghanistan, il presidente, eletto per porre termine al decennio di guerre avviate dal suo predecessore, George W. Bush e per realizzare quello che lui stesso aveva definito “nation building at home” è stato costretto ad annunciare una nuova campagna bellica e  l’invio di nuove forze americane (poche) in Medio Oriente.

Il motivo per cui Obama è stato obbligato a fare violenza a se’ stesso e alla sua volontà di terminare ogni impegno militare nella regione è da ricercarsi nel dilagare in Iraq e Siria delle forze ultra islamiste dell’Isis o Isil.

Gli acronimi stanno per “Islamic State of Iraq and Syria” o “Islamic State of Iraq and Levant”, due espressioni per indicare il tentativo delle milizie sunnite estremiste, capeggiate dal “califfo” Al Baghdadi, di creare, sui territori iracheni e siriani, il primo embrione del nuovo califfato, un regno islamico ultra ortodosso che vorrebbe estendersi a tutto il Medio Oriente, il Nord Africa e i Balcani.

Una specie di nuovo impero ottomano, ma molto più violento e intollerante non solo verso i cristiani e gli ebrei, ma anche nei confronti dei musulmani sunniti moderati e sciiti.

Una minaccia ben più grave dell’estremismo sunnita di Al Qaeda ed esplosa con tutta la sua virulenza con la decapitazione, in diretta video, di due giornalisti loro prigionieri, l’americano James Foley e l’inglese Stephen Sotloff.

Una forza in grado di minare la stabilità già poco solida dell’Iraq del dopo Saddam Hussein e la stessa sopravvivenza del regime di Bashar Al Assad in Siria.

Di fronte ad una violenza esondata sugli schermi di tutto il mondo, Barack Obama non ha potuto evitare di agire.

Per qualche tempo ha provato a sminuire la minaccia dell’Isis: a gennaio aveva paragonato gli estremisti ad una squadra di pallacanestro di scarso valore, ma poi le uccisioni dei due giornalisti lo hanno convinto a cambiare strategia.

Di qui, l’annuncio, con il discorso di mercoledì, di un nuovo coinvolgimento militare americano nell’area con l’obiettivo di degradare e distruggere le forze dell’Isis.

Un’azione, come ha sostenuto anche il segretario di Stato John Kerry, che non terminerà in pochi mesi, un anno, due o tre, e che Obama lascerà in dote al suo successore.

Una eredità ben diversa da quella per cui il premio Nobel per la pace sperava di essere ricordato.

Al di là dell’indiscutibile merito di essere stato il primo presidente a garantire una copertura sanitaria quasi universale al popolo americano, gli storici del futuro guarderanno ad Obama come a colui che, pur volendo riorientare la politica estera Usa verso l’Asia, la Cina e il Pacifico, il cosiddetto “Asian pivot”, è stato costretto a dedicare nuove forze ed energie verso quel Medio Oriente, trasformato in un pantano non solo dalla scelta sciagurata di Bush jr. di invadere l’Iraq, nel 2003, ma anche dalle sue stesse esitazioni ed eccessive titubanze verso la caduta dei regimi arabi tradizionalisti, le cosiddette “primavere arabe” del 2011.

Il nuovo impegno americano nella zona sarà però  frutto di una nuova coalizione internazionale, rivolta a contrastare la violenza dell’Isis. Un insieme di stati, tra cui tutti i paesi arabi moderati, dall’Arabia, alla Giordania, dal Qatar al Kuwait (questi ultimi accusati di fare il doppio gioco, cioè di sostenere lo sforzo occidentale, ma allo stesso tempo di finanziare l’Isis), in modo simile a quanto fatto da un altro Bush, quel George sr., (nella prima guerra del Golfo) esponente della scuola di pensiero realista, ammirato da Barack Obama come un modello da imitare.

Un sostegno importante perché, come sostiene spesso l’ex senatore dell’Illinois, gli Usa non possono intervenire da soli in ogni paese in cui esiste una minaccia terroristica.

Una dottrina esemplificata dall’affermazione secondo cui se è vero che gli Usa dispongono del miglior esercito del mondo, non è possibile pensare che ogni problema della scacchiera internazionale sia un chiodo su cui battere con il martello americano.

Una vera e propria dichiarazione di debolezza con cui Obama vorrebbe puntualizzare che gli Stati Uniti, in un mondo multipolare come l’attuale, non hanno più la forza per intervenire ovunque, ma possono farlo solo quando sono realmente in pericolo gli interessi americani. Henry Kissinger non avrebbe potuto esprimersi meglio.

La guerra contro l’Isis rischia di porre in secondo piano anche un altro obiettivo che Obama avrebbe voluto porre al centro dell’azione di politica estera del suo secondo mandato: il contenimento delle presunte mire dell’Iran al nucleare bellico e l’avvio di una nuova stagione di dialogo con il governo di Teheran.

O forse no, perché la lotta contro gli estremisti di Al Baghdadi potrebbe essere un mezzo per rafforzare il riavvicinamento Usa-Iran, visto che i primi vorrebbero eliminare anche gli sciiti iraniani.

Il leader supremo l’Ayatollah Ali Khamenei ha smentito il possibile entente Washington-Teheran, così come ha fatto anche John Kerry, però non si può escludere una inedita, ma ragionevole collaborazione contro l’Isis.  

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