L’Ilva vista da Sebino
Su l’Unità di oggi, Antonio Ingroia interviene ancora una volta per mettere una parola ragionevole sul conflitto ormai cronico aperto, questa volta, dall’Ilva di Taranto. La più grande industria siderurgica europea, uno dei centri più strategici del modello di sviluppo capitalistico del nostro Paese. Di mezzo c’è, ancora una volta, un magistrato che fa il suo dovere, nel silenzio e nella solitudine della sua attività, e senza i clamori che il caso avrebbe comportato. E c’è anche la politica, verbaiola e violenta, ai suoi massimi livelli, intervenuta per mettersi di traverso all’evidenza delle cose e operare una scelta. Attaccare la magistratura, la sua attività sancita dalla Costituzione. Perché, lo diciamo a chi lo avesse scordato, è obbligo dello Stato tutelare la salute dei lavoratori, specie quando essi sono mandati al macello, senza tutele, senza precauzioni e senza prospettive future, da un capitalismo senza cervello, primitivo e disumano.
Il discorso di Ingroia è pacato e ragionevole e non riguarda la sua persona, ma l’intervento doveroso di un suo collega costretto da circostanze inoppugnabili e protratte nel tempo a fare una scelta di legittimità, di prevenzione, come è suo dovere fare.
Apriti cielo. C’era da aspettarselo l’uragano che ne sarebbe derivato, dal versante delle truppe cammellate della politica, disabituate ormai a discernere tempi e qualità delle cose da mettere in campo. Contro il magistrato e la stessa storia.
Dopo la Fiat, l’Ilva è l’esempio più appariscente di come si sia evoluto il capitalismo nostrano. Fondata nel 1905, costruisce i primi altiforni nel 1918, trovando un impulso dalla Grande guerra. Tanto che il fascismo ne intuisce la portata strategica e ne trasferisce la sede a Genova. Il controllo finanziario passa prima all’Iri e poi alla Finsider.
Due tappe importanti della sua storia sono l’ampliamento delle sue officine su scala nazionale e l’inaugurazione nel 1965 del quarto centro siderurgico di Taranto. Nel 1995 l’Ilva è privatizzata e gli impianti ex Italsider di Taranto sono ceduti al gruppo Riva.
E qui le cose si sono complicate perché siamo arrivati all’ennesimo strascico del conflitto che contrappone un giudice per le indagini preliminari che vorrebbe giustamente chiudere una fabbrica inquinante, e addirittura il governo Monti che si arroga il diritto di essere al di sopra delle leggi e accusa il magistrato di Taranto di interferire su una materia governativa quale il diritto della politica in campo industriale. E forse Monti avrebbe ragione se potesse dire che tutto a Taranto, e anche negli altri centri siderurgici, si è sempre fatto regolarmente. Ma non è così e da buon tecnico non dovrebbe avere la memoria corta o fingere di non sapere che in circa cento anni l’Ilva è stata il luogo dove si sono esercitati i sistemi del potere più vergognosi, liberali, fascisti e democristiani e, non ultimi, anche quelli dell’ex governo Berlusconi.
Tant’è che Nicola Tranfaglia, nel suo blog, scrive: “perché per tanto tempo non si è provveduto all’indispensabile bonifica della fabbrica? La risposta è scontata. Perché bonificare costa troppo (o comunque molto) e l’Ilva, con la precedente direzione aziendale, è riuscita ad andare avanti risparmiando danaro pagando mazzette e contribuendo quindi a truccare le perizie”.
Giunti a questo punto, con tutto quello che ne è contorno e non causa (recessione, spread, disoccupazione, ecc.) possiamo dire che l’ammalato ha preso una via di non ritorno, e che spesso i medici chiamati al suo capezzale sono il vero male. Come dice l’intramontabile proverbio siciliano: - sa di più un pazzo a casa sua che un medico in casa altrui -. Dove il medico è il professorino che, con la sua bacchettina, dirige l’orchestra fatta da quattro stonati. E il concerto deve ancora cominciare. Questa è la prova generale degli strumenti.