Per riassumere la complessità di una Biennale, si può provare a raggruppare le opere in categorie:
OGGETTI DI ACCUMULO: istallazioni in cui la minuteria quotidiana funge da esposizione tassonomica/cronachistica/archeologica. Difficile trovare in questo contesto, ormai, operazioni interessanti.
VIDEO: onnipresenti, bruttissimi in generale. Gli elementi più ricorrenti sono:
– una riflessione sul corpo in sé, sul corpo sociale, sulla malattia dei corpi, la deprivazione, la depravazione.
– una natura trattata in funzione sensoriale, a volte ruffianamente; oppure nei suoi mutamenti antropici, in genere devastanti, quindi con tratti di critica sociale o di nostalgia del perduto.
Non li amo. Quest’anno se ne vede uno molto curato, quindi, quantomeno, esteticamente fruibile, dedicato a Evita Peron, vista nella sua casa in vari momenti della giornata mentre compie azioni quotidiane – il video è proiettato a 180 gradi – e poi, a parte, nella sua camera da letto, ricostruita dal vivo, dove sono presenti grandi specchi liberty in cui si vede la Peron che si guarda e probabilmente pensa e riflette.
Una variante video è costituita dalle elaborazioni elettroniche – le più belle, quest’anno, sono quelle del padiglione cinese: una proiettata sulle facciate di un piccolo cubo bianco, un’altra, più grande, su parete, riflessioni intelligenti su un corpo disgregato e riaggregato che vive in contesti creativi: le opere pittoriche del nostro rinascimento in primo luogo, analizzate nella loro struttura semplificata di volumi che interagiscono.
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Un tema importante riguarda la riflessione sui contesti storici localizzati: cultura, territori, tradizioni. Quindi architettura, scultura, decorazioni, utilizzo di materie prime in funzione di memoria della propria provenienza storica e culturale. É in questo contesto che si vedono le cose più interessanti: lacerti di bellezza (tale perché l’occhio sa riconoscerla) vengono mostrati nella frizione necessaria col contemporaneo: quindi vediamo statue monche, architravi, colonne, elementi decorativi… Forse il padiglione più bello in questo senso è quello del Sud Africa in cui gli elementi di una anatomia tassonomica mostrati in ritratti fotografici, vengono reinventati in sculture (teste e un corpo) ricavate da veri volumi di carta sovrapposti e scolpiti come manichini.
FOTO: non le amo. Ho sempre l’impressione, vedendole, che siano un pretesto per non dipingere, soprattutto quando vengono mostrate in grandi formati.
Si vedono foto “naturali” ma esiste la variante delle grandi composizioni in studio, ed è ancora una volta un artista cinese ad esporre in grandissimo formato, immagini violente, artificiose ma suggestive (ancora il tema del rapporto tra rappresentazione del corpo mediato dalla storia dell’arte occidentale e travasi nella modernità in cui s’intromettono gli orrori e le prepotenze della politica.
PITTURA. Se ne vede assai poca. Quest’anno il caso più eclatante è costituito … ancora da un cinese! apprezzabile non negli spazi dell’Arsenale dove si può vedere il ritratto di un bambino buddista e oggetti di culto, ma in uno dei palazzi della città. E si tratta di un caso a parte, da analizzare come esempio di un artista che per risultare incisivo (visionario, cultore della meraviglia, del dissenso e della riflessione), ha scelto di fare il primitivo, dipingendo – bel paradosso! – dipingendo divinamente come facevano i pittori rinascimentali. Un genio del pennello, si direbbe per banalizzare, ma sta di fatto che la vecchia pittura, quando si vede, riesce ancora a sbalordire e soprattutto sdogana il concetto di un`arte riservata a pochi artisti dotati di tecnica somma. Concetto assai aristocratico e semplificativo, certo, ma sicuramente davanti a questi quadri passerebbe la voglia a chiunque abbia l`intenzione di prendere un pennello. E forse è questo il motivo per cui per le critiche più banali siano state riservate proprio a quest’artista.
La visita di una Biennale ti lascia sempre l`impressione di un imbarazzante deja vu. L`occhio é immerso in un frastornante baraccone di immagini, oggetti e suoni, spesso infastidito da un surpluss di spoccheria creativa – troppi artisti autorizzati a sentirsi artisti, portatori più di un pensiero che di un gesto autenticamente creativo. Ma qui mi fermo.
Sebastiano Aglieco