Magazine Diario personale

BIOETICA TRA LE CORSIE di Marilena Salaris

Da Maricappi
Ieri e oggi ho seguito un corso di aggiornamento incentrato sui percorsi di riflessione attraverso la bioetica clinica, cioè l'etica che ritorna al letto del malato associata alla responsabilità  clinica, allo scopo di migliorare la qualità intrinseca delle cure. 
Ammetto di aver avuto sempre una grande curiosità in merito all'argomento, mai soddisfatta. Avere in mente tanti concetti più o meno vaghi, equivale a non saperne affatto. 
Abbiamo parlato di :- cure palliative (curare non come guarire, ma come prendersi cura);- alleanza terapeutica ( incontro tra una fiducia e una coscienza);- riconoscimento della dignità dell'uomo ( in quanto membro della famiglia umana);- la narrazione delle situazioni reali nella ricerca delle possibili soluzioni delle criticità....
Mi ha "accompagnata" nella riflessione una frase di un certo signor Van Rensseler Potter ( 1988), studioso dei nostri giorni, figlio della nostra stessa realtà:  " L'umanità ha urgente bisogno di una nuova saggezza che dia la conoscenza di come usare la conoscenza, per sopravvivere  e per il miglioramento della qualità della vita (e che) potrebbe essere chiamata "scienza della sopravvivenza". 
Come pure una frase estrapolata da un discorso più ampio: la liceità dell'intervento dell'uomo sull'uomo.   (Greccia).  
E la domanda sorge spontanea: la bioetica è un nuovo settore dell'etica conosciuta o è una nuova etica? Come pure: che fare per far fronte alla gestione della dicotomia "vita"  ( che non ha prezzo) e  "sanità" ( che ha sicuramente un costo)?O anche: qual'è la strada da seguire di fronte alla gestione delle risorse per l'individuo in relazione alle risorse per la società? Cioè, dove dovrebbero finire le prime e dove dovrebbero iniziare le altre, senza rischiare di ledere i diritti imprescindibili di entrambi? 
Si, cari noi... Perché è facile parlare quando a dover prendere delle decisioni sulla vita e sulla morte di qualcuno non siamo noi. O quando si dovrebbe dire a un paziente tetraplegico che il suo pseudo-mondo  fra quelle mura dell'Unita Spinale sta per finire con la dimissione. O quando si dovrebbe comunicare a una persona o ai suoi cari che ha un tumore o che non camminerà più. 
È accaduta una cosa molto bella stamattina: Danilo, 18 anni, che in seguito ad un tuffo in mare si è risvegliato tetraplegico, ci ha portato la sua testimonianza su come ha vissuto e vive le decisioni che prende ogni giorno per se stesso e/o che qualcun'altro prende a volte per lui. Del suo rapporto col suo care giver ( lei è le mie mani; lei non cambia, al contrario degli operatori in struttura, lei c'è sempre;  la nostra complicità è una cosa bellissima) e con la famiglia ( ora sto in casa dei miei, dove non ero mai stato per più di qualche ora). Di come sia stato essenziale, ai fini del dare avere della relazione col resto del  mondo,  il  lasciarsi andare, il reciproco  aprirsi delle parti in gioco. Oggi non ho visto un paziente e una badante, ma un ragazzo e la sua "estensione attraverso l'altro". Oggi ho sentito una care giver raccontare la difficoltà di allontanarsi dai tanto decantati protocolli in nome della dignità umana, dell'evidenza dei risultati ottenuti e sulla base delle esplicite richieste/esigenze di Danilo/persona, consapevole sulla propria pelle. Eppoi, come ha detto Danilo, un sorriso spesso vale molto più di un buon farmaco. 
Prima della fine ci è stato chiesto se le nostre aspettative iniziali fossero state soddisfatte: difficile a dirsi. Di  fatto, arrivare con qualche certezza ed andarsene con almeno un dubbio per me è già abbastanza. 
Dubito sempre di chi ha troppe certezze.                                                                                 By Lella

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