Ricordo ancora una vecchia frase degli anni Settanta che diceva: “Se la merda avesse un valore, i proletari nascerebbero senza buco del culo.” e subito mi viene in mente un’immortale battuta di Altan: “E’ ora di rivalutare la merda.- E quando mai è stata svalutata?”
Come abbiamo visto nella puntata precedente il “vantaggio” del biogas dipende molto dalle situazioni. Certamente in paesi con una vasta popolazione rurale povera come l’India, la Cina, il Vietnam o l’Africa, il passaggio dal fuoco di legna all’uso del biogas per cuocere il cibo è sicuramente un vantaggio sia in termini di costi (la legna da ardere si trova a grande distanza dal proprio focolare, non è gratuita, pensate al medioevale diritto di legnatico, che fu uno dei primi ad essere tolto con la rivoluzione industriale) che di salute.
Prima e dopo l'introduzione del biogas
Gli studi più interessanti riguardanti l’impatto dei fumi causati dalla legna da ardere sugli individui sono stati effettuati in Svezia, un paese grande produttore di legname il cui uso a scopi energetici è ampiamente diffuso. P. Molnar evidenziò che le famiglie svedesi che utilizzavano legna per il loro riscaldamento domestico, avevano una maggiore esposizione personale a zinco, rame, piombo e manganese. P. Gustafson segnalò che le famiglie svedesi che utilizzavano legna, rispetto ai controlli, avevano una maggiore esposizione a benzene e 1-3 butadiene, due potenti cancerogeni che caratterizzano le emissioni derivanti dalla combustione di legname e carta e che sono presenti anche nel fumo di tabacco. Uno studio condotto in Canada evidenziò nelle donne di Montreal esposte ai prodotti di combustione di carbone e legna utilizzati a scopo domestico un significativo aumento di tumore polmonare che suggerisce la necessità di chiarire il ruolo delle emissioni da combustione di legna da ardere nell’induzione di questa patologia. Studi condotti in Italia, nell’ambito dell’attività di ricerca dell’Istituto Nazionale Ricerca sul cancro di Genova, hanno evidenziato come, in due paesi appenninici dove l’uso della legna da ardere nelle stufe è diffuso, le concentrazioni di benzo(a)pirene nelle abitazioni che utilizzavano legna era tendenzialmente maggiore di quelle trovate in case che usavano il metano o il GPL come combustibile. Inoltre misure condotte in trenta abitazioni austriache riscaldate da legna avevano riscontrato anche la presenza di diossine nei fumi emessi. Il problema della diossina diventa tragico in paesi come il Vietnam le cui foreste e risaie sono state abbondantemente irrorate da Agente Orange durante la guerra.
Esempio di impianto di biogas indù
Di fronte a questi dati lo sfruttamento delle biomasse (liquami, scarti dell’industria agroalimentare, cippato di legno e culture dedicate come stocco di mais, paglia e paglia di riso, bagasse da canna da zucchero e canne comuni di fosso, scarti della lavorazione dell’olio) come alimentazione di digestori anaerobici al fine di ottenere biogas è sicuramente da preferire ed è sicuramente “vantaggiosa”, visto anche la semplicità e il basso costo degli impianti di tipo indù. Il biogas può anche essere usato non solo per sostituire la legna o il letame nelle cucine e nelle stufe, ma può essere utilizzato direttamente come fonte di illuminazione (allo stesso modo degli ottocenteschi lampioni a gas)
Biogas usato per illuminazione, Vietnam
Naturalmente questo uso del biogas come fonte energetica per cuocere il cibo o fornire riscaldamento è valido sia in India che nelle fattorie della Svezia, degli USA o dell’Appennino Italiano. In particolare il trattamento via digestione anaerobica delle biomasse è assolutamente da preferirsi alla combustione diretta delle biomasse, ad esempio nelle aziende agricole dove si pratica la coltivazione e la potatura del bosco e del sottobosco. Il trattamento anaerobico delle biomasse comporterebbe non solo la produzione di biogas (fonte energetica) ma anche il digestato fornirebbe un ottimo humus da utilizzare direttamente sui campi. Questo compost di qualità troverebbe la sua naturale destinazione nelle stesse aziende agricole che alimentano il digestore. In questo caso, la costante segregazione nei terreni agricoli del carbonio organico sintetizzato dalle piante, nella forma di compost, darebbe un contributo alla riduzione dei gas serra nettamente maggiore di quello della semplice combustione delle stesse biomasse. L’uso delle biomasse prodotte dalla filiera corta locale per alimentare un impianto integrato aerobico – anaerobico sarebbe assolutamente funzionale alla produzione agricola di qualità e all’allevamento di bovini che spesso sono parte delle aziende agricole o delle aree circostanti.
L’uso del biogas e del compost, nelle attività agro-alimentari, ridurrebbe i costi aziendali ma, fatto ancora più importante, tale scelta sarebbe assolutamente compatibile con l’agricoltura biologica e la produzioni di prodotti DOC.
Processo del biogas
Da Biogas a Biometano
Il biogas come si è visto può essere usato per generare calore ed energia, ma può essere usato anche per produrre elettricità o biocombustibile per autoveicoli. Ovviamente il miglior uso del biogas dipende dal valore e dai costi dell’utilizzo finale del biogas.
In molte aziende agricole il biogas è usato per produrre elettricità, ma questo non è un buon uso se l’elettricità della rete ha costi più bassi. Se invece l’elettricità in zona è assente o ha costi elevati l’uso del biogas per ottenere elettricità è una buona risorsa.
Per avere una buona combustione del biogas (qualunque sia l’uso che se ne vuole fare, anche per cucinare il cibo in un fornello primitivo) è bene deumidificarlo, desolforarlo e decarbonarlo (upgrading o rimozione della CO2).
Il biogas uscito dal fermentatore è umido e caldo perciò il trattamento di deumidificazione è necessario in quanto l’umidità di cui il biogas è saturo, condensando all’interno delle tubazioni, in seguito a variazioni di temperatura e/o pressione, può provocare corrosione e malfunzionamenti. Inoltre la stessa umidità diminuisce il rendimento dei motori endotermici.
Esistono diversi sistemi di deumidificazione: le trappole idrauliche (dove la diminuita velocità del gas per aumento della sezione causa la segregazione per gravità), i cicloni (dove l’acqua viene separata dalla forza centrifuga), i sistemi di raffreddamento (es. tubazioni interrate, trappole di condensa, opportune macchine frigorifere), la compressione, oppure l’assorbimento in soluzioni a base di glicoli o ricorrendo a sali igroscopici, adsorbimento su ossido di silicio (SiO2) o carbone attivo. Attualmente il sistema di deumidificazione per raffreddamento è il più impiegato.
Mediante la deumidificazione si separa dal biogas l’umidità che condensa precipitando insieme a sostanze nocive e corrosive presenti nel flusso gassoso stesso. E’ opportuno progettare le linee del biogas con opportune pendenze ed eventuali colli di deposito ed evacuazione della condensa al fine di evitarne l’accumulo in prossimità delle soffianti e dei motori.
La desolforazione consiste essenzialmente nella rimozione di acido solfidrico (H2S); il biogas, infatti, può contenere fino a 1% di acido solfidrico H2S che deve essere eliminato a causa dell’elevato potere corrosivo dell’acido. La desolforazione è particolarmente necessaria se si trattano deiezioni bovine in quanto queste danno un biogas particolarmente ricco di H2S. La desolforazione può avvenire sia agendo sulla fase liquida del materiale presente nel digestore sia sul biogas da sottoporre o sottoposto a upgrading.
Nel primo caso si applicano metodi di precipitazione chimico-fisica, addizionando alla fase liquida molecole quali cloruro ferroso (FeCl2), cloruro ferrico (FeCl3) o solfato di ferro (FeSO4). La desolforazione operata sul biogas può essere condotta nel digestore, in un reattore specifico o nello stessa colonna ove avviene il vero e proprio processo di upgrading, contestualmente al processo di rimozione della CO2.
I processi adottati sono essenzialmente: trattamenti biologici di ossidazione condotti nel digestore mediante l’aggiunta attentamente controllata di ossigeno (ponendo particolare attenzione al limite di infiammabilità del metano) per favorire l’azione di batteri ossidanti appartenenti ai generi Thiobacillus e Sulfolobus. I batteri prima ossidano l’acido solfidrico in ione solfato e poi riducono il solfato in zolfo elementare, il quale si accumula sulle superfici dei fermentatori e del fluido in fermentazione come strato bianco giallastro.
Quando i livelli di idrogeno solforato sono elevati è necessario prevedere dei sistemi di abbattimento integrativi, ad umido o a secco. Per quanto riguarda i sistemi ad umido, questi possono essere assimilati alle torri di lavaggio (scrubber) normalmente utilizzate per la depurazione delle emissioni gassose. Tali sistemi devono essere installati prima della sezione di deumidificazione. Un primo sistema utilizza una reazione chimica, generalmente in condizioni di pressione e temperatura ambiente.
Scrubber
Il trattamento consiste nel lavaggio con una soluzione basica (es. la soda), che neutralizza l’H2SO4, composto altamente corrosivo e quindi pericoloso per gli impianti di utilizzazione, formatosi dall’H2S. Una successiva fase di lavaggio acido permette di neutralizzare l’eccesso di base prima dello scarico della soluzione. Il principale vantaggio di questo sistema è la semplicità, ma il costo dei reattivi e del trattamento dell’acqua scaricata ne riduce l’impiego industriale. Un altro sistema, poco diffuso, consiste nel lavaggio con acqua sotto pressione che mette in soluzione l’H2S insieme alla CO2. Tale miscela viene poi rilasciata in una successiva fase di stripping.
Il sistema di desolforazione a secco prevede un processo di trattamento di tipo chimico e consiste nel far passare il biogas attraverso una sostanza adsorbente. Una prima opzione consiste in un sistema che utilizza un adsorbente contenente ossidi di ferro in grado di interagire con l’acido solfidrico e captarlo in modo da separarlo dal biogas. Un’altra opzione prevede l’utilizzo del carbone attivo. I due sistemi si differenziano in quanto la rigenerazione dell’ossido di ferro è più facile rispetto a quella del carbone attivo.
Upgrading
Processi di rimozione della CO2 – upgrading
I trattamenti per la rimozione o riduzione del contenuto di CO2 sono finalizzati ad aumentare il tenore in metano del biogas. I processi più utilizzati, che devono essere installati solo dopo la rimozione dell’H2S, sono:
1) l’assorbimento della CO2 in acqua con successivo strippaggio ed emissione in atmosfera (il più semplice e meno costoso a parte il costo di compressione);
2) l’impiego di membrane semipermeabili, in grado di lasciare passare la CO2 e di trattenere il CH4.
I metodi attualmente più usati nel processo di upgrading per rimuovere la CO2 sono di tipo fisico (adsorbimento a pressione oscillante o PSA, lavaggio con acqua a pressione o PWS, lavaggio fisico con solventi organici, membrane) o di tipo chimico (es. lavaggio con monoetanolammina, MEA).
I processi di scrubbing con acqua in pressione sono i più semplici e i più economici.
Al termine del processo di purificazione e upgrading, il BM ottenuto contiene circa il 98% di CH4 ed e chimicamente molto simile al gas naturale (NG).
Generazione di energia elettrica e termica
Una volta purificato il biometano viene inviato a motori a combustione interna per la cogenerazione di energia elettrica e il contemporaneo recupero del calore, ovvero produzione di energia elettrica e acqua calda.
La Cogenerazione (Combinated Heat and Power = CHP) consiste nell’uso di una macchina termica per generare contemporaneamente elettricità e calore utile. La cogenerazione è un uso termodinamicamente efficiente del combustibile, infatti le macchine termiche in genere non convertono tutta la loro energia termica in elettricità. In base alla seconda legge della termodinamica in una centrale convenzionale una parte non piccola dell’energia termica viene persa come eccesso di calore. Catturando questo eccesso di calore la CHP usa quella parte di energia termica che in una centrale normale sarebbe sprecato, ottenendo valori di efficienza che potenzialmente possono superare l’80%. Questo significa che meno combustibile deve essere consumato per ottenere la stessa quantità di energia utile.
Cogeneratore CHP
Una evoluzione dei cogeneratori sono i Trigeneratori (Combined Cooling, Heat and Power = CCHP) che producono contemporaneamente elettricità, calore e raffreddamento dalla combustione di un combustibile. Nei paesi scandinavi la cogenerazione è usata ampiamente per il cosiddetto District Heating o Teleheating, ovvero un sistema di distribuzione di calore per riscaldamento di edifici residenziali e commerciali (riscaldamento e acqua calda).
Un tipico Trigeneratore ha la seguente curva di distribuzione dell’energia rispetto all’energia in ingresso: Elettricità 45%, Calore + Refrigerazione = 40%. Perdite di calore = 13% e perdite di linea = 2%. Il che non è male considerando che le normali centrali a carbone (o nucleari) convertono solo il 33% del loro input di calore in elettricità. Il rimanente 67% esce dalle turbine come calore di bassa qualità di nessun uso pratico. I trigeneratori sono di grande utilità quando hanno dimensioni adatte agli edifici che devono “energizzare”. Essi possono andare da grandi dimensioni come questo all’aeroporto di Heathrow
Unità CHP all'aeroporto di Heathrow
o quello della città di New York che fornisce il New York City Steam System, fino a piccoli sistemi domestici della dimensione di una lavastoviglie o di un microonde, i cosiddetti Micro-cogenerators o Distribuited Energy resources (DER) che viaggiano a meno di 5 kW utilizzabili in case private o piccoli negozi. In questo caso l’energia può essere consumata totalmente o venduta (se permesso) alla rete elettrica della zona.
Esempi di micro CHP
Esempio di Cogeneratore
Come si vede dalle dimensioni la tecnologia oggi offre possibilità per tutti i gusti e tutte le tasche.
Un altro uso del biometano è quello di combustibile per l’autotrazione. Ovviamente anche in questo caso il biogas deve essere purificato e ridotto a biometano. Una volta ottenuto il biometano, che come si è detto ha composizione pressoché uguale a quella del metano (GN), il biogas può essere portato alla rete di distribuzione e o, liquefatto, può venduto in bombole come un normale GPL.
Bombola di Biometano
Il biogas, meglio il biometano, è un carburante flessibile nella moderna economia automobilistica. Esso infatti può produrre elettricità per dare potenza alle automobili elettriche, ma può anche essere trasformato in un biocombustibile paragonabile al biodiesel o al bio-etanolo. Nel 2011 la Honda Civic CNG è diventata il primo veicolo a gas naturale acquistabile negli USA che può viaggiare con upgraded biogas.
Tanto per capire il rapporto tra biogas e bio-etanolo pubblichiamo la seguente tabella.
Confronto biogas vs etanolo
Il metano è notoriamente un gas effetto serra (GHGs = GreenHouse Gases). I principali aeriformi ad effetto serra sono tre: il vapore acqueo che rappresenta il 70% degli GHGs, l’Anidride carbonica che sarebbe responsabile di circa il 5-20% (il valore più accreditato è il 15%) e il Metano considerato responsabile del 8% dell’effetto serra. La capacità di trattenere il calore del Metano è 30 volte superiore a quella dell’Anidride carbonica, ma il suo tempo di semi-vita è di 8 anni contro i circa 100 della CO2.
Secondo molti ambientalisti il ciclo vitale e la catena di distribuzione degli animali allevati per il consumo umano è causa di almeno metà dei GHGs di origine antropica.
La FAO stima che 7.516 milioni di metri cubi all’anno di CO2 siano dovuti al bestiame di allevamento (bovini, cavalli, bufali, pecore, capre, cammelli, maiali e pollame), ovvero il 18% del totale di GHGs. I più estremisti tuttavia si spingono ad affermare che il bestiame di allevamento dia non meno di 32.564 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, pari al 51% dell’emissione annuale di GHGs antropici. Questa stima al rialzo tiene conto anche del processo della respirazione degli animali, della riduzione delle foreste per far posto all’allevamento e ovviamente della produzione di metano dovuta agli escrementi e ai peti degli animali ruminanti (bovini [ovvero vacche, bufali, zebù e bisonti] pecore, capre, cervi, antilopi, gazzelle, cammelli, llama, okapi, ecc.). Secondo la FAO il 37% del metano di produzione antropica deriva dal bestiame. La FAO stima che 103 milioni di tonnellate di metano siano state emesse nel 2004 tramite la fermentazione enterica e la defecazione, il tutto pari a 2.369 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti. Anche questi dati sono considerati sottostimati da molti ambientalisti.
Tutti questi dati sono ovviamente di difficile valutazione in quanto ci sono notevoli incertezze nella valutazione di quanto bestiame sia di allevamento (livestock) o brado. La FAO stima per esempio 33,0 milioni di tonnellate di pollame allevati nel 2002 e 21,7 miliardi di capi di bestiame, mentre molte ONG parlano di 72,9 milioni di tonnellate di polli e di 50 miliardi di capi di bestiame allevati nei primi anni 2000.
La conclusione di questa campagna sui GHGs porta gli ambientalisti a chiedere la chiusura degli allevamenti e un regime vegetariano (se non addirittura vegano), in quanto, secondo loro, proprio gli allevamenti animali sono causa di almeno la metà dell’effetto serra antropico. Questa campagna talvolta si presenta con altre sfumature in particolare la condanna per lo stile di vita occidentale e soprattutto di quello americano. Non occorre qui citare uno dei “cattivi” preferiti della propaganda ambientalista la McDonald, considerata da molti quintessenza dell’America.
Ci sono però due fatti che dovrebbero fare riflettere: il primo consiste nel fatto che se dieta carnivora, allevamento del bestiame ed effetto serra vanno a braccetto, allora c’è qualcosa che non funziona in quanto il maggior numero di bovini non è in Argentina o negli USA, ma in India, paese notoriamente vegetariano. In realtà anticamente l’India non era un paese vegetariano, anzi la macellazione delle vacche era un compito della casta sacerdotale di brahmani, e la carne veniva consumata in occasione di cerimonie, funerali e matrimoni.
Vacche sacre in India
“Indra mangerà i tuoi buoi, la tua preziosa offerta che vale molto. Indra è a tutti supremo. Quindici o venti bovini, allora, per me una ventina di vitelloni preparano, e io divoro da loro il grasso, e mi riempio la pancia. Indra il Supremo, è sopra ogni cosa.” (Rig Veda, Libro 10, Inno 86, verso 13-14).
Fu la grande crescita demografica che fece attuare la scelta di non macellare il bestiame, ma di utilizzarne le risorse come il latte, lo sterco e la forza lavoro come animale da some e trazione. Solo dopo il 500 a.C, sette religiose come il Giainismo e il Buddismo cominciarono a proibire la macellazione. Per nove secoli Buddhismo e Induismo influenzarono, opponendosi l’uno all’altro, le abitudini alimentari del popolo indù finché il latte sostituì la carne come alimento rituale della casta brahmanica, nonché come fonte di proteine nobili per tutti. La carne rimase prerogativa della casta guerriera, gli Kshatrya, che dovevano mantenere alto il livello di forza e aggressività, connesse tradizionalmente al consumo di questo alimento.
Cortile nel tempio di Goshala
Nel suo “Sacrificio di bovini, rituale funerario e culto degli antenati” Francesco Brighenti afferma:
“La tradizione rituale consistente nell’immolare bufali in onore di potenti divinità è stata perpetuata fino ai nostri giorni dallo Shaktismo. Fin dall’antichità il sacrificio del bufalo per decapitazione rappresentava in India un surrogato rituale del sacrificio umano ed è, dopo questo, l’offerta di più elevato valore dedicabile alla Dea[Kali] o alle sue innumerevoli manifestazioni secondarie, siano esse venerate a livello locale oppure pan-indiano. Il sacrificio del bufalo è praticato in India anche nell’ambito di culti tribali dedicati agli spiriti che presiedono alla fertilità dei campi, all’abbondanza delle precipitazioni, e ad altre funzioni decisive per la sopravvivenza delle comunità di agricoltori tribali, funzioni che in fondo sono le stesse demandate dagli agricoltori di religione hindu alle proprie divinità femminili.[...]
Il più antico rituale funerario brahmanico, quello çrauta (“appartenente a ciò che fu udito”, ossia alla rivelazione vedica), prevedeva l’offerta sacrificale di una vacca in occasione della cremazione del cadavere di un ahitagni, cioè di un àrya che avesse alimentato in vita i tre fuochi sacrificali usati nel rituale çrauta. La vacca prescelta doveva essere vecchia, sporca, sterile, di colore scuro, priva di corna. Durante la processione funebre l’animale era condotto al seguito del feretro e dei bracieri contenenti i fuochi sacrificali fino al terreno di cremazione, dove esso, dopo essere stato toccato sulle terga da tutti i familiari del defunto, era ucciso e macellato. I suoi organi interni e le parti sezionate del suo corpo erano sovrapposti, membro su membro, alle corrispondenti parti del cadavere, già adagiato sulla pira funebre, e bruciati assieme ad esso. Da tale costume trasse origine il termine anustaraòì, “quella che è deposta” (sottinteso sopra al cadavere), usato per indicare la vacca sacrificale. [...] Nel rituale domestico smàrta, basato, cioè, sui testi della smjti (“ciò che è tramandato”, ossia il complesso di norme socio-religiose codificate dalla tradizione brahmanica), il sacrificio di una vacca agli dei nel corso delle cerimonie funebri, caratteristico del rituale çrauta e contemplato soltanto nel caso in cui il defunto fosse un sacrificante vedico, è sostituito dalla donazione di una vacca ai brahmani. Quest’atto rituale è chiamato godàna, mentre la vacca, donata ai brahmani dal morente o dal figlio di questi, è chiamata vaitaraòì, “quella che fa attraversare”. Questo nome pone in primo piano la sua funzione di psicopompo, che essa condivide con la vacca anustaraòì. [...] Quando il sacrificio dello zebù divenne tabù in India, anche il sacrificio dell’anustaraòì cadette in desuetudine. Venne stabilito che alle esequie solenni degli ahitagni che durante la loro vita non avessero mai offerto sacrifici animali, la vacca anustaraòì non dovesse più essere messa a morte, ma soltanto costretta a compiere il giro della pira funebre, della salma e dei tre fuochi sacrificali. L’animale era quindi rimesso in libertà pregandolo di riempire di latte i due mondi, quello degli uomini e quello dei morti.”
Col tempo l’usanza di liberare una vacca cominciò a sfuggire di mano e le famiglie facoltose o potenti cominciarono a liberare più vacche, in genere fino al numero di dieci. Questa tradizione unita al divieto di mangiare carne di vacca ha fatto aumentare la popolazione bovina brada dell’India a dismisura tanto che l’India, un paese vegetariano, detiene oggi appunto la qualifica del maggior numero di capi di bestiame bovino al mondo e, se accettiamo l’idea che l’allevamento bovino sia tra i maggiori responsabili di almeno metà dei gas serra, allora il colpevole dell’effetto serra non sarebbe l’America carnivora, ma l’India vegetariana. Scherzi del fanatismo ecologista.
Un altro punto però vale la pena di sottolineare, ovvero che la tesi che il cambiamento climatico sia causato dai gas effetto serra (GHGs). Infatti per valutare l’impatto dell’allevamento del bestiame oggi dobbiamo stabilire se oggi ci sono più animali “effetto serra” di alcuni secoli fa, per esempio durante il XIX secolo. Benché non ci siano serie storiche sappiamo per certo che nella prima metà del XIX in Nordamerica pascolavano milioni di bisonti (stime variano da 25 milioni a 80 milioni) i quali, si può ritener facessero quello che fanno i bovini ovvero mangiassero erba, emettessero peti e defecassero. Viste le cifre possiamo pensare che la quantità di gas serra (in particolare metano visto che i bisonti sono ruminanti) emessa fosse comparabile se non superiore a quella degli allevamenti attuali. Non solo, con l’arrivo degli europei in America si diffuse il cavallo che cominciò a popolare il continente con vaste mandrie. Dobbiamo dedurre che l’arrivo dei conquistadores facesse aumentare in modo esponenziale il numero di equini sulla terra, visto che essi si diffusero in un continente dove fino al 1492 erano assenti. Un altro punto interessante è che, sempre nel XIX secolo nelle savane africane scorrazzavano milioni di gazzelle, antilopi, bufali, e altri bovini selvatici, molti dei quali oggi in via di estinzione. Se facciamo due conti possiamo ritenere che la quantità di gas serra emessi dagli animali ruminanti fino alla prima metà dell’Ottocento fosse pari se non superiore a quella attuale, eppure il clima rimase rigido, infatti la piccola glaciazione del 1650 finì attorno al 1850, periodo dopo il quale i bisonti erano praticamente estinti. Malgrado la scomparsa di un significativo numero di inquinatori da GHGs il clima cominciò a intiepidire. Perché?
Diagramma complessivo del processo di produzione di biogas
Gasometro per biogas in Canada.
Pallone serbatoio per biogas in India. Contrariamente a quanto può sembrare il serbatoio a camera d'aria è più sicuro in caso di esplosione di quello in metallo in quanto non produce schegge.
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