Zakk Wylde è uno di quei personaggi che è facile adorare quasi a prescindere. Magari più a causa dell’estetica machista da ragazzaccio strafottente tutto muscoli, barba folta e burnout a cavallo di una Harley Davidson (rispetto a quella più fricchettona dell’epoca Pride & Glory) che per le abilità di compositore di musica, che pure gli vengono riconosciute. Nonostante ciò non è proprio il caso di parlare di Catacombs of the Black Vatican in termini eccessivamente elogiativi. Non si può che essere d’accordo col commento dello stesso Zakk il quale, entrando nel merito del disco proprio nel modo in cui ci saremmo aspettati, diceva che sarebbe stato, cito, esattamente uguale agli ultimi nove dischi. Concordo, anche se con qualche riserva. Quella che sicuramente non cambia è la formula standard: qualche pezzo groovoso, altri rocciosi, un po’ di salsa barbecue e le classiche ballate da contemplazione post sbornia sul nostro essere transitori e caduchi. Infatti, volendo tirare le somme di questi undici brani inediti, diciamo che il menù propone un antipasto blueseggiante, in cui con più insistenza si sente la vena southern (tipo Believe, Beyond the Down e Damn the Flood), poi, con un andamento gaussiano della figaggine, brani più taglienti, che ti sussurrano all’orecchio un nome preciso, Ozzy Osbourne (Fields of Unforgiveness, My Dying Time, I’ve Gone Away, Empty Promises e, soprattutto, Heart of Darkness) e, infine, tre caramelle gommose per dessert (Angel of Mercy, Scars, Shades of Gray che ha addirittura l’ingrato compito di chiudere il disco) le quali, per carità, saranno pure carine, malinconiche e tutto quanto, magari pure accompagnate da begli assoloni che servono allo scopo di dare corpo laddove non c’è n’è poi tanto ma, come dire, annoiano. I tempi di In This River sembrano lontani. Il problema qui, se di problema vogliamo parlare, non risiede però nelle ballate; anche in Order of the Black ce ne erano tante (addirittura quattro) ma non avevano il tempo di spezzare la tensione emotiva perché lì c’erano i veri pezzi ruvidi, che puzzavano di whiskey rovesciato sul bitume bollente e che ti svegliavano dal torpore delle parentesi melodiche o acustiche (vecchie amanti di Zakk dai cui amplessi sono nati The Song Remains Not the Same, Hangover Music Vol. VI e, se vogliamo tornare indietro al secolo scorso, Book Of Shadows) sollevandoti dieci centimetri da terra come un uppercut mollato a tradimento da un peso massimo.
Forse il problema qui è che quei pezzi non ci sono, o meglio, ci sono e rappresentano pure percentualmente la parte più sostanziosa del disco, solo che semplicemente perdono in un match diretto contro quelli del precedente album. Del resto Order era il disco che veniva subito dopo l’insano gesto di Ozzy di allontanarlo dalla sua galassia solista, quindi magari era germogliato in un terreno di coltura fatto di sentimenti forti e contrastanti, oltre che di una sostanziosa base di riff ideati per l’uso e consumo dello stesso Ozzy. Catacombs, che sta a Shot to Hell nel modo in cui il succitato stava a The Blessed Hellride e Mafia, è più un album di assestamento, di passaggio, probabilmente complice anche l’abbandono dell’efficacissimo Nick Catanese a vantaggio di quello che apparentemente assomiglia più una fichetta che all’idealtipico chitarrista ipervitaminizzato che pensi sia stato cresciuto da sua mamma appositamente per farlo arrivare a trent’anni pronto per suonare in un gruppo tipo i Black Label Society. Mettete da parte zuffe, lividi e nocche scorticate, Catacombs non le prende né le dà. (Charles)