In chiave antropologica, la letteratura scientifica definisce ilsenso d’insicurezza secondo due categorie principali: la fear of crime, cioè la paura personale della criminalità, e il concern about crime, cioè la preoccupazione sociale per la criminalità. Mentre la prima è legata al timore personale di subire un atto criminoso, la seconda concerne l’ansia delle conseguenze sociali correlate alla prospettiva, reale o presunta, di una maggior insicurezza all’interno della propria comunità d’appartenenza. Quando parliamo di «percezione della sicurezza», che nell’ultimo ventennio s’è imposta tra le principali fonti di preoccupazione dei cittadini italiani, scavalcata solo di recente dalla crisi economica, è essenzialmente alla seconda dimensione, quella del concern, che si tende a fare riferimento.
L’importanza della distinzione tra «paura personale» e «preoccupazione sociale» sta nel fatto che il rapporto esistente tra percezione d’insicurezza e probabilità di rimanere vittime di un reato non è lineare come si potrebbe immaginare. Sebbene scenda, in generale, la paura della criminalità e, in particolare, della microcriminalità, al contrario rimane elevata la percezione di un aumento dei reati. Per il Ministero dell’Interno, nel 2014, in Italia, l’indice di delittuosità (rapporto fra reati e numero d’abitanti) è calato del 7,7%: 150.000 delitti in meno rispetto al 2013. Eppure, secondo l’ottava edizione del Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa promosso da Fondazione Unipolis, Demos&Pi e Osservatorio di Pavia, l’86% degli italiani ha registrato una crescita dei fenomeni criminali nel Paese nel corso degli ultimi cinque anni, e il 48% denuncia un aumento nella propria zona di residenza: un valore molto vicino ai picchi del 50% registrati nel biennio 2007–2008.
La dissociazione tra le due tendenze si spiega perché il sentimento d’insicurezza non è legato tanto alle evidenze statistiche dei fatti, quanto alla loro rappresentazione. Se la percezione è la consapevolezza che abbiamo della realtà sulla base dei nostri dati sensoriali, la rappresentazione è il modo in cui la percezione si presenta alla coscienza. Qui entra in gioco il ruolo dei media, spesso accusati d’essere responsabili nel diffondere la paura del crimine nella società contemporanea. Non c’è dubbio che, negli ultimi anni, la spettacolarizzazione dei reati da parte di TV e giornali, il sensazionalismo deformante con cui tendono a rappresentare un fatto di cronaca, abbia contribuito a influenzare il sentimento di paura del cittadino medio. Sempre il Rapporto sulla sicurezza dell’Osservatorio di Pavia c’informa che il 2014 ha segnato di nuovo un picco di notizie di reati, nonostante, come abbiamo visto, sia stabile il loro numero. Rispetto ai picchi del passato — l’«emergenza criminalità» del 2007, concentrata sui reati commessi dagli immigrati, e la «passione criminale» nel 2011, con la narrazione serializzata di delitti individuali come gli omicidî di Sarah Scazzi e Yara Gambirasio — l’incremento del 2014, pari a 3.115 notizie, si caratterizza per una composizione eterogenea, con al centro una narrazione di crimini differenti per tipologia e collocazione («delitti passionali», infanticidî e altri crimini commessi tra mura domestiche) ma tutti accomunati dall’efferatezza, dalla gravità e dalla pervasività sul territorio. Invece, a livello regionale, l’attenzione dei media si sposta sui reati contro il patrimonio, come i furti, le truffe nei confronti degli anziani, le falsificazioni delle carte di credito.
In altre parole, è a livello locale, quello di maggiore prossimità al singolo individuo, che i crimini violenti trovano la propria dimensione ansiogena. Lo spettatore subisce le conseguenze psicologiche di un atto criminale, non vissuto direttamente, a causa del senso d’inquietudine che l’amplificazione di un singolo fatto di cronaca riesce a produrre anche tra chi non era presente. In questo senso, la strage di Milano non poteva non colpire profondamente l’opinione pubblica: a prescindere dalle misure sulla sicurezza che saranno adottate in futuro, l’impressione è che ogni Tribunale, anche piccolo o periferico, d’ora in poi dovrà considerarsi a rischio, alla stregua di un «obiettivo sensibile».
* Estratto dall’articolo “La strage di Milano, tra insicurezza e caccia all’avvocato”, scritto in collaborazione con l’Avv. Marzia Camerano per The Fielder.