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Bruno Buozzi parla il 27 aprile 1924 all'VIII Congresso della Fiomsta

Creato il 09 marzo 2012 da Lucabilli
Bruno Buozzi parla il 27 aprile 1924 all'VIII Congresso della FiomstaDurante la guerra i salari degli operai metallurgici non seguirono mai il costo della vita. Durante la guerra gli industriali metallurgici, nella loro grande maggioranza, non cedettero che alla forza e alla paura, e occorse chiamarli a centinaia di fronte ai Comitati di mobilitazione industriale per indurli a concedere qualche aumento di salario ai loro dipendenti. Dopo la guerra – esclusa la parentesi della concessione delle 8 ore, accordate senza resistenza perché era troppo presto per dimenticare le promesse fatte durante la guerra, e perché lo spettro della rivoluzione russa incuteva un sacro terrore su molti che attualmente ostentavano una tal quale fièrezza – in alcune regioni occorsero agitazioni su agitazioni, e scioperi su scioperi, per non riuscire neppure ad ottenere salari adeguati al costo della vita. Né durante, né dopo la guerra – se si toglie un breve periodo immediatamente susseguente alla occupazione delle fabbriche – mai gli indici dei salari degli operai metallurgici raggiunsero quelli del costo della vita e di ciò se ne avrà una larga documentazione nella relazione – di prossima pubblicazione – presentata alla Commissione di indagine sulle condizioni delle industrie. […] Dopo la risoluzione dell’agitazione per la conquista dei minimi di salario, fatta nel 1919 e chiusasi con parecchi concordati regionali, venne più volte rilevata, tanto da parte nostra quanto da parte industriale, la necessità delle particolari esigenze delle diverse branche industriali. Tale revisione iniziata prima localmente in diversi paesi d’Italia, venne poi sospesa, d’accordo fra i dirigenti della Fiom e della Federazione Nazionale Sindacale delle Industrie Metallurgiche e Meccaniche, per procedere ad un revisione di carattere nazionale. Nei colloqui che portarono a questa conclusione, parecchi dei più autorevoli dirigenti delle organizzazioni industriali ebbero a dichiarare che in fatto di concessioni di carattere finanziario non avrebbero lesinato, ma che, per contro, avrebbero chiesto modifiche regolamentari tendenti a ridare una maggiore disciplina al personale. La Fiom presentò un apposito memoriale, in attesa delle trattative, a circa 60.000 operai, sparsi in diverse regioni d’Italia Settentrionale e Centrale, vennero concessi in acconto e col consenso delle organizzazioni industriali, aumenti varianti da una a due lire al giorno. […] Durante le trattative, all’affermazione della Fiom, che non esiste alcuna giustificazione ragionevole perché quando una parte di industriali non può fare concessioni anche quella che può non ne debba fare, il relatore della Federazione Industriale rispondeva implacabilmente: “niente per nessuno: da quando è finita la guerra gli industriali hanno sempre (testuale) calato i pantaloni, ma ora basta e incominciamo da voi!”. Ognuno intende il valore di tale affermazione. Raccogliemmo la sfida – evidentemente lanciata a noi per tutto il proletariato – pur essendo convinti che la battaglia sarebbe stata dura. Agire diversamente sarebbe stata una viltà. Si può argomentare senza tema di essere smentiti che l’agitazione, malgrado la sua estrema gravità, ebbe il consenso della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Gli industriali, in conseguenza della loro bestiale intransigenza, dovuta ad una minoranza reazionaria, che era riuscita a prendere le redini dell’agitazione, si trovarono isolati. Dei grandi organi dell’opinione pubblica italiana, qualcuno manifestò la sua contrarietà per il sistema di lotta adottato dagli operai, ma nessuno osò difendere apertamente gli industriali. La Fiom – come per lo sciopero del 1919 per la conquista dei minimi – ebbe anche allora le simpatie del “Popolod’Italia”, e del suo Direttore. “Il Popolo d’Italia”, pur non essendosi eretto a portavoce dell’agitazione, non risparmiò rimproveri agli industriali e non nascose le sue simpatie per gli operai in lotta. […] Dalla marcia su Roma in poi, la pressione fascista sulle nostre organizzazioni si è sviluppata in modo tale da non avere bisogno di illustrazioni. La nostra opera si esplica fra difficoltà che, al loro confronto, quelle delle reazioni del 1892 e 1898 appaiono ridicole. Fuori dei grandi centri o di qualche raro capoluogo di Provincia, non è più possibile che qualche modesta riunione segreta in campagna o fra i monti. Ci sono operai costretti ad essere iscritti alle Corporazioni: pena la fame o l’esilio, i quali sono più che mai affezionati alla Fiom e ce ne danno spesso dimostrazioni tangibili. La situazione però non ci consente di illustrare tutta l’opera che la Fiom va svolgendo nell’interesse degli operai. Molti industriali, convinti e sicuri che l’enorme maggioranza dei loro operai è ancora spiritualmente colla Fiom, trattano e discutono con noi, ma si raccomandano di non dare pubblicità alle trattative e agli accordi. Le preoccupazioni sono giustificate. In parecchie località agli industriali venne intimato di non riceverci. E quando l’intimazione non venne accolta si ebbero violenze. Comunque, la Fiom ha adeguato la sua azione alle necessità dei tempi col più alto senso di dignità, l’attività dei suoi funzionari è attualmente superiore piuttosto che inferiore a quella degli anni passati, e ciò del resto è risaputo anche dalle Sezioni, alle quali l’assistenza dei segretari federali non è mai mancata, anche quando poteva esporre a pericoli. […] Pertanto, rese impotenti le organizzazioni facenti capo alla Confederazione Generale del Lavoro, stipendiati e salariati sono oramai alla mercé dei datori di lavoro perché le Corporazioni fasciste, sia perché ossessionate dalla fregola di dimostrare che la lotta di classe è ben morta, sia perché mancanti di dirigenti competenti, sia perché i loro soci sono in gran parte coatti e non danno perciò alcuna attività concreta, finiscono per assoggettarsi quasi sempre alla volontà dei datori di lavoro. Organizzatori non si ci improvvisa, specialmente in un campo vasto e complesso come quello delle industrie siderurgiche, metallurgiche, meccaniche, navali ed affini. Salvo rare eccezioni, le vertenze finora sostenute nel nostro campo dalle corporazioni sindacali sono state impostate e condotte nel modo più infantile e senza un indice che denoti una superficiale conoscenza delle industrie e della organizzazione del lavoro. Quasi tutti i dirigenti delle corporazioni sindacali provengono da quel tale movimento sindacalista rivoluzionario che odiava il praticismo, che derideva quelli che si sforzavano di conoscere le industrie e di persuadere gli operai della necessità di preoccuparsi delle condizioni delle industrie stesse, che chiamava noi in senso di disprezzo “manipolatori di tariffe” perché ci sforzavamo di adeguare le tariffe e i concordati alle necessità delle industrie, e che combatteva i concordati a lunga scadenza – da noi sempre sostenuti per garantire una certa tranquillità alle industrie – affermando che ogni giorno gli operai avevano il diritto di buttare all’aria il concordato stipulato il giorno precedente. La loro mentalità non è per nulla cambiata. Sono passati all’eccesso opposto. Colla stessa irragionevolezza colla quale si battevano per la guerra di classe (non già per la lotta di classe intesa in senso civile) oggi si battono per la collaborazione, e poiché per questa non hanno alcuna preparazione, chi ha ragione sono sempre gli industriali.

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