Eccoci di nuovo qui, al secondo appuntamento di Brutti, sporchi e bastardi, l’unica rubrica che vi porta sul vostro schermo del pc i film più stracazzuti mai realizzati. Questa volta la scelta è abbastanza anomala ma comunque meditata: volevo parlarvi di un film di Charles Bronson ma senza cadere nei soliti noti. Si cambia anche annata rispetto ad Un killer di nome Shatter: dai colorati anni 70 ai più cupi 80. Fermo restando che Charlie nostro sarà anche in futuro un ospite di questo spazio, con strafigate come La legge di Murphy o 10 minuti a mezzanotte, questa volta parleremo di uno dei titoli meno conosciuti del periodo senile dell’attore; quel Professione giustiziere che viene di solito confuso con i 255 Death wish interpretati da Bronson con o senza la regia di Michael Winner. Film abbastanza mediocre a dire il vero, ma non esente da spunti interessanti, soprattutto a livello registico. La pellicola in questione affronta in maniera abbastanza originale il tema delle torture. Ci si inventa infatti che in America Latina viva in piena attività un certo Dottore, boia e torturatore al soldo del governo, che commette il terribile sbaglio di uccidere un amico giornalista di Bronson, killer in pensione esiliatosi volontariamente su un’isola in mezzo all’oceano.
E’ chiaro che l’orrore dei vari crimini perpetrati dal Dottore riporti alla mente altri orrori, soprattutto quelli nazisti, e la sua figura non possa non ricordare quella del celebre Mengele che compì un vero genocidio di ebrei con la scusa della ricerca medica. J. Lee Thompson, nell’ultima fase della sua carriera, mostrava una certa propensione per la violenza e le scene forti, basti pensare al poco celebre Soggetti proibiti, sempre col fidato Bronson, dove si metteva in scena una storia di pedofilia e omicidi a sfondo poliziesco. L’amico Eugenio parlandomi di Michael Winner mi diceva che “era regista più di mannaja che di fioretto”, ma, ancor di più, si può far calzare il paragone proprio a Thompson che era passato da un sofisticato Il promontorio della paura negli anni 60 allo slasher di Compleanno di sangue con spiedini mortali e tette in bella vista, ma soprattutto ad una serie di film giustizialisti che non andavano molto per il sottile in nefandezze o scene forti. Un esempio su tutti: lo stupratore nudo di 10 minuti a mezzanotte. Purtroppo il problema è che Professione giustiziere non appassiona mai, troppo stereotipato in clichè poco interessanti a partire dal suo personaggio principale, e senza avere il coraggio di colorare la vicenda di tragedia come succedeva nei gloriosi Winner anni 70. A turbare sono soprattutto le scene di tortura, anche solo raccontate attraverso un televisore dalle vittime del Dottore, con un tale assortimento di nefandezze (una testa cucita nello stomaco di una donna, vetri fatti mangiare, stupri con bottiglie) da fare invidia ad un qualsiasi De Sade. Thompson calca molto la mano sulle brutalità fin dai primi minuti quando assistiamo alla morte del giornalista amico del protagonista, ucciso a scariche di corrente elettrica con vistose perdite di sangue.
E’ la lezione che il Mengele di turno, faccia da bonaccione con i baffi a nascondere la sua natura ferina, impartisce ad alcuni soldati: “Oggi vi insegnerò a torturare”. Ad accompagnarlo è la sorella, lesbica e sadica, che commenta l’ultima opera del fratello con “Dovevi farlo soffrire di più quel maiale”. In questo mondo dominato dai mostri l’unica soluzione è per forza scatenare un altro mostro, il killer Bronson, il migliore nel suo lavoro. Ecco quindi che, abbandonati i panni del pensionato in eterna villeggiatura (“Leggo finché c’è il sole poi vado a dormire e la mattina mi lavo con l’acqua della cascata”), l’assassino, cambiato nel fisico e la mente, si rimette per l’ultima volta in azione. Non convince la storia d’amore che viene ritagliata tra il protagonista e la moglie del suo amico, dapprima diffidente (“Gli manca l’anima.”) per poi esserne affascinata, che conduce ad un forzatissimo happy end naturalistico. Il problema è in Charles Bronson che negli anni 80 si avvicina ai 60 e risulta fuori parte quando afferra per esempio i testicoli di un energumeno e lo malmena. E’, per farvi capire, come se il vostro pacioso nonnettino sfidasse a duello un Van Damme qualsiasi per vincere: la cosa fa anche un po’ di tenerezza. Però, pensionato o meno Bronson, uccide i suoi bersagli con una certa varietà, a colpi di coltello o con fucilate in faccia, sempre con il solito sorriso sornione nel volto.Thompson gira, come già detto, in modo più che egregio e regala al pubblico un buon inseguimento di auto che ricorda per certi versi quello finale del Cobra di Cosmatos. Produce la Cannon e nei credits possiamo trovare, non come attrice, l’amore della vita di Bronson, quella bella e fragile Jill Ireland che morendo per un cancro si porterà via la luce negli occhi di Charlie. Il titolo inglese The evil that men do è migliore e sembra derivi dalla frase del Giulio Cesare di Shakespeare “The evil that men do lives after them; The good is often interred with their bones”. Peccato che questo Professione giustiziere non riesca davvero a convincere, pecchi di facilonerie narrative (l’uso di un registratore nel prologo) e sprechi la, potenzialmente, bella sequenza finale, con le vittime ridotte a freak che fanno a pezzi il Dottore, in uno sviluppo troppo sciatto e frettoloso, come se Bronson e Thompson volessero tornarsene a casa. Come ho detto una visione la merita, ma nulla di più. Noi invece ci risentiamo la settimana prossima su queste emittenti con altre pellicole da dissotterrare…
Frase di lancio:
“I criminali devono rispondere alla legge, il più crudele carnefice al mondo dovrà rispondere a Bronson”
Andrea Lanza