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Incredibile come ad un tratto un "di tanto in tanto" diventi abitudine...Forse può sembrare un'introduzione del tutto slegata e priva di senso, ma chi mi legge abitualmente (santi uomini e sante donne) potrebbe intuire a cosa riconduca il tutto.
Al cinema italiano, ebbene. A come io in questi ultimi anni stia a poco a poco riprendendo quella fiducia e, allo stesso tempo, ritrovandola, io cominci a vedere con occhi nuovi il cinema italiano contemporaneo. Quello per il quale si fa prima a dire "vade retro" piuttosto che perderci del tempo. E io ultimamente ci perdo tempo, sì. E tolte quelle crepe e quelli che comunemente chiamiamo incidenti di percorso (vedi il più recente Si può fare l'amore vestiti?) mi sento di dire che, credere ancora nel cinema nostrano e, in quei "pochi ma buoni" autori che abbiamo, provoca un non so che di felicità inaspettata.
Edoardo Leo rientra in questi pochi ma buoni sopra citati. Mi piace come attore, apprezzo davvero ciò che ha da dire e "come", lo dice. Insieme a lui Massimiliano Bruno. Ecco perché di questo ultimo lavoro insieme (in fase di sceneggiatura, con Herbert Simone Paragnani), Buongiorno papà, mi ritrovo ora a scriverne con entusiasmo e piena approvazione.
Anche se l'entusiasmo non è identico a quello meno convinto, del post visione di Diciotto anni dopo, con questa sua seconda prova da regista, Leo mi ha convinta di una cosa. E cioè che se ti imbatti in tematiche che al mondo appaiono come banali e trite e ritrite, non hai molte possibilità di cavartela. Quindi, o lo sai fare, o finisci nel girone dei dannati, dove "bazzicano" quelli che ci hanno provato, ma che poveracci...lì rimangono.
Leo in questo film corre più di un rischio, e secondo me lo fa con disinibita consapevolezza. Il primo è quello che obbliga il pubblico ad accettare Raoul Bova che, per quanto bellino, si sa, è più il contentino che sappia abbindolare la presa di coscienza della morte del lavoro dell'attore in Italia...ahimè, sempre più di dubbia e misteriosa fattezza. Stessa cosa vale per il corrispettivo femminile di Bova, ovvero Nicole Grimaudo.
E sapete come vince su questi che, all'apparenza, sembrerebbero macigni ammazza carriera? Lasciando che il film e la storia, vadano oltre le facce degli attori, delle loro capacità. Come se ad un tratto contasse solo ciò che le immagini hanno da dire, e tutto diventa funzionale, come il nome della giovane protagonista (non a caso Layla, canzone dei Derek and the Dominos, composta da Eric Clapton e Jim Gordon) e le molteplici citazioni e i vari omaggi ai grandi maestri. Siano essi musicali o cinematografici (Kubrick su tutti).
Il cliché del padre ragazzino e donnaiolo è roba poco appetitosa, già nota. Ma se riesci a non darlo a vedere, e Leo ci riesce, sei già a metà dell'opera.Potrebbe bastare un elemento forte nel cast, che sta una bella spanna sopra agli altri. Marco Giallini ad esempio, il nonno ex rockettaro che cita Bukowski e si improvvisa Alice Cooper. Come dire, il vecchio saggio che non ti aspetti, ma che vorresti avere avuto.E poi c'è chi si sposta con innata delicatezza e quella piacevole goffaggine, alternando il ruolo di regista a quello di attore, anche questo basta a dare al film la giusta dose di credibilità e bellezza, come la commedia italiana vuole/vorrebbe.
Buongiorno papà non è il solito film che grida e rivendica il ruolo del padre modello. La paternità qui non è solo la responsabilità scritta nel sangue che scorre nelle vene, è anche una firma più sottile che ci mette di fronte a ciò che creiamo, che ci appartiene e che dobbiamo tutelare. Un'idea è come un figlio. Ti appartiene in maniera carnale, ti sconvolge la vita, ti dona qualcosa e quasi sempre non si ha il tempo di capirlo.
Forse il film invita a riflettere di più su ciò che stiamo facendo mentre viviamo, senza tralasciare nulla, o quasi. Per far sì che se c'è da muovere il culo e correre dietro a qualcosa o a qualcuno, bisogna farlo e basta.
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