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Buried – Sepolto (R. Cortès, 2010)

Creato il 16 agosto 2013 da Salcapolupo @recensionihc

Paul Conroy, da qualche parte in Iraq, si risveglia all’interno di una cassa di legno ben chiusa: dopo il panico iniziale avverte un cellulare squillare e non fa in tempo a rispondere…In breve. Un film dall’intreccio hitchockiano – Nodo alla gola e Prigionieri dell’oceano sono le due dichiarate ispirazioni del regista – che rischia di far sollevare qualche sopracciglio: un solo personaggio visibile, una bara, telefonate che raccontano l’intreccio e poco altro. La forma finisce per soffocare la sostanza, ed il risultato – schiavo di una logica che cerca l’emozione ad ogni costo – non è in definitiva esaltante.

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Per qualche strana ragione una battuta fa ridere di più la prima volta, ed esponenzialmente meno le successive che la ascoltiamo: non che questa pellicola sia pensata per l’allegria dello spettatore, tutt’altro, ma il concetto non cambia, e si applica all’idea di claustrofobia di Buried. Esasperando il senso di soffocamento di Cube – che, a confronto, sembrerà ambientato su colline in fiore – questo film dello spagnolo Cortès parte da uno schema narrativo poco utilizzato, preso in prestito da “Il pozzo e il pendolo” di Poe (ma anche da “La sepoltura prematura“). In tutto questo esaspera l’idea di fondo, ripetendola inverosimilmente ed arricchendola di dettagli lacrimosi: in altre parole, questo procedimento disinnesca l’idea stessa. Resta vero che Cortès ci accompagna all’interno di un incubo davvero singolare, molto coraggioso in termini di concepimento: un uomo, non un militare invincibile, rinchiuso in una bara che tenta disperatamente di comunicare col mondo esterno, ricevendo minacce da quello che sembra il suo sequestratore. Buried somiglia molto ad un lunghissimo dramma pseudo-radiofonico nel quale, specie nella prima parte, viene lasciato troppo alla contemplazione passiva di quel poco che vediamo succedere. Le strane progressioni dell’altrettanto claustrofobico ed oscuro Haze cedono il passo ad una spiegazione della prigionìa molto chiara, quasi a voler sembrare simbolo dell’uomo occidentale sepolto in casa, contro la sua volontà, da una minaccia terroristica su cui sa poco o nulla. Il mix di questo elemento con il voler propinare ostinatamente la sfera affettiva dell’uomo, riducendo l’elemento di tensione ad un piccolo accessorio (e rendendo il finale straziante piuttosto “telefonato”), rende quello che sembra un thriller debitore di Fulci un lavoro drammatizzato all’inverosimile con qualche elemento di tensione.

Del resto “Buried” si protrae per un’ora e mezza davvero interminabile, ed è – salvo alcune sequenze tanto fuori dalle righe quanto implausibili, ovvero quel genere di cose che ti ricordano che “è solo un film” – un’autentico “delitto” visivo, per quanto programmaticamente ambizioso. Vincolare lo spazio narrativo ad una bara sembra più un esercizio di stile per aspiranti sceneggiatori che un vero e proprio film: probabilmente Cortès avrebbe voluto rivoluzionare l’idea stessa di storia, abolendo stereotipi e personaggi abusati. Il tentativo pero’, a dirla onestamente, rischia di assomigliare al caso di un ipotetico calciatore che ostenti  un metodo infallibile per non fare brutte figure: non scendere in campo. Buried , per quanto abbia qualche trovata discreta (ma clamorosamente narcotizzante per la sua credibilità) da’ l’impressione di voler dare tutto rischiando poco, e giocando spudoratamente sull’aspetto commovente della storia (i familiari delle vittime, ma anche il licenziamento via telefono che ho trovato inconcepibile nel senso peggiore del termine).

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Racchiudere un film in uno spazio limitato è un’idea certamente valida, peraltro sfruttata con successo per esaltare poeticamente la caducità della vita e degli affetti (si pensi a L’invenzione di Morel): in questo caso sembra più un gioco interminabile fine a se stesso. Ciò vale in misura ancora più esasperata per un thriller, genere che vive da sempre su artifici visuali e concettuali qui inapplicabili, e che poteva secondo me funzionare meglio come corto o mediometraggio. Buried procede inesorabile e monocorde, irrigidisce lo schema narrativo e si presenta, spietatamente, per quello che è: un lavoro pretenzioso e poco stimolante. Un film che a conti fatti rischia di stancare già dopo mezz’ora, mentre le carte sono in tavola, è sciolta ogni ambiguità, ci si affida ad espedienti grossolani per intrattenere (le segreterìe beffarde, le parenti nevrasteniche, gli operatori che rispondono male, gli ostaggi, le discussioni romantiche) e lo spettatore attende, genuflesso, che la pellicola finisca. Nel vedere il povero protagonista dannarsi l’anima nella bara di legno, illuminato dal display di un cellulare o, nella migliore delle ipotesi, da un accendino o una pila, si sorride (!) nel pensare che registi e sceneggiatori validissimi siano stati martoriati per aver osato molto di più, e viene quasi nostalgia della pochezza ostentata di progetti “commerciali” come The Blair Witch Project. Così, a suo modo, il quadro diventa chiaro: Buried si relega, per precisa scelta, ad una nicchia di spettatori a cui piacerà incondizionatamente, a riprova dell’ennesimo de gustibus. Vivo comunque nella speranza che, in qualche ipotetico mondo parallelo, al buon Edgar Allan Poe non sia preso un colpo nell’aver visto il film…


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