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Burn out syndrome

Da Ivy

burnout

La sindrome del burn out è un cedimento allo stress specifico delle helping professions, ossia di chi esercita professioni di aiuto nel sociale (medici, insegnanti, poliziotti, psicologi, assistenti sociali…). Può colpire chi, a contatto con le persone che cerca di aiutare, per empatia ne comprende le condizioni e rivive in se stesso il loro disagio esistenziale, cogliendone tutta la dolorosa realtà.

 

La causa principe di frustrazione arriva in genere dal rapporto difficile con l’organizzazione per cui si lavora, dalla burocrazia che frena anche durante le urgenze, con direttive fredde di cui non si riescono a condividere le convinzioni. Lo stress del burn out è soprattutto emotivo, perché l’operatore sperimenta una sorta di incapacità di risolvere i bisogni altrui di cui si deve occupare; e ciò causa sensazioni si svuotamento, perdita di energie ed infine, ondate di cinismo.

Ci si sente frustrati perché l’organizzazione, la società, non risponde come dovrebbe, e più ci si impegna nel migliorare le cose, più gli altri frenano. Così la fonte di stress e di dolore nel burn out è duplice. Da una parte quella data da chi ci circonda, che non vede, non sente, non vuol capire per vivere con meno pensieri e dall’altra quella per empatia, della persona che per lavoro, professione o volontariato si sta aiutando.

È un logoramento psicofisico dovuto alla mancanza di energia e capacità di sostenere lo stress per le continue delusioni che si accumulano giorno dopo giorno. È una sindrome insomma, che capita solo a persone sensibili, che si fanno carico delle problematiche delle persone a cui badano, tanto da non riuscire né volere discernere tra la propria vita e la loro; così il dolore del prossimo diventa il loro. Encomiabile. Ma poi la durezza del mondo, le spezza.

Gli specialisti che si ammalano più frequentemente di burn out sono quelli che si occupano di pazienti cronici, incurabili o morenti, quindi medici e oncologi ma non solo. Per esempio, nel 2008 l’allora Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria cominciò a porre attenzione al fenomeno burn out a seguito di sette suicidi di polizia penitenziaria nell’arco di cinque mesi.

La sindrome burn out seguirebbe quattro fasi. La prima fase è quella dell’entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un tipo di lavoro per aiutare il prossimo (migliorare il mondo e se stessi ma forse anche per qualche inconscio desiderio di esercitare una forma di potere o di controllo sui più deboli).

La seconda fase è la disillusione, quando si inizia a rendersi conto di come le aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. Dinieghi immotivati dei superiori, inghippi burocratici e soprattutto indifferenza generale delle altre persone. Il senso di gratificazione legato alla professione inizia a scemare.

La fase più buia del burn out è la terza, la frustrazione porta al convincimento di non essere più in grado di aiutare alcuno; si prova la sensazione di inutilità, la percezione che nulla cambia nonostante tutti gli sforzi che peraltro i superiori non apprezzano. Ci si sente soli contro tutto e tutti.

Se si cede, si arriva alla quarta fase, l’apatia. La passione per il lavoro e l’interesse per il prossimo si spegne e subentra l’indifferenza, il disimpegno emozionale. Iniziano atteggiamenti negativi verso il prossimo che si sarebbe dovuto aiutare ma ormai si crede, di non poterlo fare, e verso se stessi, sentendosi colpevoli della propria incapacità verso il lavoro che si è scelto. Questo cinismo è una sorta di strategia particolare per difendersi dalle tante delusioni lavorative. È un esaurimento emotivo, un rifiuto nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura. Convinti a priori dell’inutilità del proprio operato.

I sintomi dei soggetti colpiti da burn out vanno quindi da un senso di esaurimento, apatia, nervosismo, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, indifferenza, negativismo, sensazione di immobilismo, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti… E così alla fine il danno è doppio, a lui e all’utenza a cui viene offerto un servizio inadeguato e un trattamento cinico e meno umano.

Senza essere poliziotti penitenziari o medici con pazienti terminali, credo che se non la sindrome, episodi di burn out li proviamo tutti.

Fino alla terza fase, li ritengo più umani che patologici. L’importante è non arrendersi e non scivolare fino alla quarta. Non respingere deliberatamente chi si potrebbe aiutare, ma continuare a credere, anche dopo ogni delusione, che è così che si deve agire. Il mondo delude quasi sempre, ma non è questa una buona ragione per trasformarsi in cinici. Le esperienze delle delusioni provate anzi, aiutano a sostenere meglio chi si rivolge a noi per aiuto proprio perché debole e sfibrato dalle delusioni che noi ormai conosciamo fin troppo bene. E magari può essere solo un figlio, un amico, un amico del figlio.

E’ chiaro che nel mio piccolo, ho fatto un collegamento fra i commenti del post precedente dove scoprivo che per qualcuno la filosofia è tanto misteriosa quanto inutile. Perché, chi invece la ama, non intrattiene se stesso con ciò che comprende in soliloqui mentali, ma, quando ne vede l’occasione e gli amici domandano, allora dà, ciò che finora ha compreso, ma è come se aiutasse perché questo è il fine della filosofia: migliorare l’uomo, nella conoscenza di sé e del mondo. Ci si meraviglia sempre di quel che si scopre sull’uomo nella filosofia e viene spontaneo dividerlo con altri della stessa natura, umana.. Non è un credersi più saggio, perché la saggezza è proprio come la salute, va e viene.

Non importa se si è incompresi o non capiti dai più, perché chi cerca comprensione e approvazione, poco ci metterà a vendersi.

Quindi se non è grave arrivare alla terza fase del burn out, nella professione, nella vita privata, anche nei rapporti in classe con i compagni, o per chi cerca la filosofia, l’importante è non trasformarsi in cinici della quarta fase e credere che niente di quel che si fa serva al mondo. I cambiamenti non si vedono subito, e chi dice “non cambierà” non va ascoltato. La ferma convinzione nella propria strada testimonia la capacità di sperare ancora e nonostante tutto nell’umanità. E all’uomo questo, glielo si deve.

Cos’è l’uomo? Qui risponde la filosofia

 


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