C’era una volta un regista, Sergio Leone, capace di prenderti per mano e portarti con sé, riuscendo, senza alcuna forzatura, a farti entrare nel suo mondo, costruito ed idealizzato a misura cinematografica, ricco certo di varie influenze, ma adattato alla propria visione delle cose, nella cinica consapevolezza di come va il mondo.
Ti faceva credere che ciò che vedevi sullo schermo fosse il “vero” western, perché appariva quanto immaginato quando con i tuoi amici si giocava “a fare i cowboys”… Sparatorie cruente ed eroi immortali, pronti a rialzarsi (sorpresa!) anche se colpiti al cuore dalle pallottole di un fucile e nella mente dalla nenia di un carillon o, ancora, persi nel miraggio folle di una facile ricchezza, intenti ad una caccia al tesoro mentre impazza la Guerra Civile.
E come dimenticare l’ eguale respiro epico nel narrare contemporaneamente l’epopea del West e il suo tramonto, o la visualizzazione di quanto detto da Mao, “la rivoluzione non è un pranzo di gala”…
Robert De Niro
Viene così offerta a Leone, alla sua indubbia abilità registica, la possibilità di focalizzare la propria idea del classico “sogno americano”, un gangster movie connotato dal forte contrasto tra toni fiabeschi ed una realtà dura, sanguigna, estremamente violenta, come evidenziato ulteriormente dalla dolcezza della musica di Ennio Morricone in contrapposizione alla cupa fotografia di Tonino Delli Colli: l’ascesa di un gruppo di ragazzi cresciuti nel quartiere ebraico di New York, che hanno le loro guide in Noodles e Max (Robert De Niro e James Woods, una volta adulti), la “evoluzione” dai piccoli furti alle rapine in grande stile e agli omicidi che gli permetteranno di creare una vera e propria società in pieno Proibizionismo, anche se le loro strade si separeranno, per ricongiungersi definitivamente, nell’illusione di un’amicizia che li vedrà ancora uniti, almeno nel rimpianto e nella consapevolezza di una sofferenza che, per entrambi, non finirà mai.Elizabeth McGovern e Robert De Niro
In mezzo, l’amore idolatrato, sin da ragazzo, di Noodles per Deborah (Elizabeth McGovern), la quale crede fermamente nella possibilità che si realizzi il proprio sogno, insudiciato da un uomo che confonde l’amore con il possesso, capace, nell’impossibilità di comprendere ed accettare un rifiuto, di passare dal tenero romanticismo (l’intero ristorante prenotato ed allestito appositamente per il loro incontro) alla violenza più sordida ed incomprensibile (lo stupro in auto, ancora oggi un pugno nello stomaco): C’era una volta in America ha la sua forza stilistica ed espressiva proprio in questi contrasti tra sequenze particolarmente commoventi (l’assassinio di Dominic, che muore sussurrando “Sono inciampato”), giocate anche sul filo di una particolare ironia (splendido il tuffarsi di Patsy, ancora ragazzino, sul dolcetto alla panna che doveva servirgli a far sì che la coetanea Peggy gli concedesse le sue grazie), ed altre, per l’ appunto, piuttosto crude, per quanto necessarie nel delineare la psicologia dei personaggi.James Woods
A questo riguardo, sottolineando la bravura di Woods nel far risaltare il cinismo opportunista di Max, nell’apparenza estremamente conviviale, la sua capacità d’adattarsi ad ogni evento, imprevisti compresi, senza guardare troppo per il sottile, risulta difficile non riconoscere nel Noodles interpretato con rara misura da De Niro, sino all’identificazione più pura e completa, violento ma con una sua morale di fondo, quasi ingenuo nel suo approcciarsi alla vita, tra disillusione, disincanto e macabra ironia, lo stesso Leone. Siamo di fronte ad un’ opera, ora compiutamente definitiva, che, tra pregi e difetti, non può lasciare indifferenti, anche grazie alle suddette superbe interpretazioni, mantenendo inalterato il suo fascino ipnotico, per un viaggio nel tempo dal sapore onirico (la circolarità dell’intera vicenda, nella coincidenza tra sequenza iniziale e finale).“Sono inciampato”
Il lascito di Leone è volto ad assicurare, più che la propria immortalità, quella del cinema stesso, grazie ad una simbiosi tra limpidezza dello sguardo e magica sospensione temporale, per cui tutto sembra accadere ora, con vita e finzione a mescolarsi tra loro, come uno spettacolo d’ ombre cinesi: in fondo, “siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni” e l’ambiguo sorriso di Noodles in chiusura sarà sempre lì a ricordarcelo.