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C’era una volta un’America diversa, un’America dipinta di nero, con gli occhi grondanti lacrime ed una rabbia di dolore intenso, di dolore cupo. C’era una volta un’America imbrattata di sogni, infarcita di divisioni, un’America dei ghetti e dei bianchi, dove il nero abitava vecchie piantagioni, ululando il suo dramma. Di razzismo impregnata, di controllo radicale, di vecchi miti piena, l’America anni ’50 aveva il sapore del sale, difficile da mandar giù a chicchi, una manciata necessaria per un po’ di sapore. Ed il sapore era la novità musicale, rigorosamente black. Cantiamo il blues, suoniamo il blues, non la musica delle balere o il vecchio piano bar, ma solo il blues, il vecchio blues, la musica sofferta che grida il suo dolore e lo culla come un bambino che deve guarire da un malanno. Muddy Waters canta “I’m man” con una rabbia misurata, la sua voce è roca, ma c’è molta morbidezza, una passione intensa, ma ancora acerba. Muddy è un uomo che sa cosa vuole, ma non stravolge e i primi buoni piazzamenti sono intervallati da qualche caduta, tra le varie infedeltà ed una donna che ama veramente. Muddy è forte, possente, manesco, vendicativo. Un po’ come Howlin’ Wolf, più giovane, un’armonica ed un amplificatore. Sembra creare un nuovo sound, e sono nuovi successi, per poco, troppo poco. I soldi si sperperano in serate, in donne, in abiti, in case, in cadillac. La cadillac diventa il simbolo di una casa discografica che raccoglie tutto il blues e fa centro fino ai ’60. La Chess Records nasce dal nulla e cambia, per sempre, il modo di intendere la musica. Se il blues è già sorto da tempo, senza imprimersi nelle industrie discografiche che vendono i soliti prodotti rigorosamente bianchi, è proprio attraverso il fiuto dei Chess (non solo Leonard, ma anche il fratello), che i figli del blues si diffondono con rapidità. Nasce il “rock’n’roll”, c’è un tale, Chuck Berry, nome mitico, che riscrive le regole della musica, prima di ogni altro bianco. Qualcuno provi a sentire la base di “Good Vibrations” dei mitici Beach Boys; si accorgerà che Chuck Berry è uno di quei genietti a cui la musica deve tanto. E le donne non mancano. Etta James ritiene di essere la figlia di Minnesota “Fats” e gioca a biliardo con grande maestria. Sembra rude, emancipata, in realtà è fragile, sbandata per via di una vita difficile, senza affetti. Canta “At last”(buona la performance, anche recitativa, di Beyoncè) e crea dei gorgheggi d’anima straripanti di passione. E’ l’anima femminile del nu-blues, aprendo a nuovi mondi. Leonard si arricchisce, è un bianco ma si trova bene con i neri, è la prima ferita all’integralismo razziale, pronto di lì a poco, a decadere, quasi del tutto. Chuck Berry finisce in prigione ed il suo passo dell’anatra diventa un simbolo di integrazione. Etta si dà alla droga, Muddy beve alcool senza controllo, Wolf è uno che non le manda a dire da subito, Chuck si intrattiene con minorenni bianche. L’altra faccia del blues, come l’altra faccia del rock e, persino, del pop. Darnell Martin ha grandi ambizioni, in parte riuscite, ma è la storia in sé a dominare la scena ed è quindi la musica la vera forza del film. Consigliato a chi ama la musica e vuole scoprire un genere che non ha avuto mai ampio respiro in Europa, ai fan della nuova scuola r’n’b/ hip hop (c’è Mos Def, Beyoncè e, alla fine, si intravede un grande Nas), a chi ama il biopic, nella sua riuscita tradizionale. Curiosità: snobbato ai botteghini americani, il film è stato, a maggio 2009 , un failure in Italia, uscendo in pochissime copie, dopo il pessimo risultato fatto registrare dal successo mondiale “Dreamgirls” sempre nel belpaese. Da recuperare. Il fatto che sia vicino ad una forma televisiva è vero, ma una visione non fa male.
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