7 FEBBRAIO – Nel mezzo della consueta campagna elettorale condotta all’italiana e, dunque, giocata grazie ai piccoli o grandi scoop mediatici piuttosto che con la sostanza dei contenuti, il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha fornito l’occasione per tornare a riflettere su uno dei problemi attualmente più spinosi per il Bel Paese, ossia quello legato all’intollerabilità del sovraffollamento carcerario. Egli ha, infatti, fatto visita alla casa circondariale di San Vittore a Milano, emblema della gravità ed emergenza della situazione carceraria.
Ma vediamo quali sono i motivi di tale allarmismo e quali le ragioni che hanno portato la Corte Europea dei diritti umani a condannare il nostro Paese per danni morali ai detenuti e ad essere più volte ripresa dal Consiglio Europeo. Innanzitutto si parte dai numeri: in Italia vi sono 66.000 presenze in carcere a fronte di una capienza regolamentata di 43.000 unità. La situazione è giunta a una fase di profonda regressione che rende le strutture inadatte al dettato costituzionale ed allo stesso ordinamento penitenziario. Uno studio del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rileva, poi, che circa la metà dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio e si stima che circa il 30% di loro verrà assolto. All’interno delle strutture troviamo spesso un unico psicologo e, peraltro, l’insufficienza di organico caratterizza un po’ tutti i settori della vita carceraria a partire dal personale di polizia penitenziaria per arrivare agli educatori. Allarmante è, inoltre, la presenza di sieropositivi detenuti in assenza di opportune cure o di tossicodipendenti per i quali il sistema di misure alternative è completamente bloccato. Essi, certo, non potranno essere curati dalla detenzione ed il tasso di recidiva all’uscita è ben più alto che se avessero ricevuto l’aiuto adeguato. Il carcere, inoltre, non risolve affatto il problema dei detenuti stranieri per quanto riguarda il loro reinserimento nella società o la risoluzione della situazione di irregolarità per i quali andrebbero probabilmente pensate strutture di accoglienza apposite.
La pena non nasce come strumento giuridico in risposta alla violazione di un precetto penale, ma come forma di vendetta istintiva, una forma di sopravvivenza,di riaffermazione della collettività sugli strumenti di prevaricazione interna. L’evoluzione di tale concetto avviene nel periodo post Romano e Medievale, grazie anche all’incontro con la Chiesa, ma la svolta definitiva giunge durante l’Illuminismo e con lo sviluppo del Giusnaturalismo e dell’affermarsi di una vera e propria concezione di Stato. La pena trova qui una sua ragion d’essere e una sua precisa collocazione grazie al “contratto sociale”, essa non appartiene più a questo punto a tutto quel substrato sociale fatto di suggestioni e prevaricazioni, espressioni di forza, ma viene regolamentata secondo principi razionali ed utilitaristici. Il carcere viene scelto inizialmente quale luogo di detenzione provvisorio per soggetti in attesa di giudizio ed acquista natura autonoma solo con l’illuminismo in quanto forma di sanzione che più rispecchiava le istanze di uguaglianza e rieducazione. Il tempo e l’applicazione storica di tale sanzione sembrano, tuttavia, contraddire tali impressioni e un’accurata analisi del problema potrebbe portare oggi ad un superamento della stessa in favore di nuove forme punitive che maggiormente rispecchino le esigenze di rieducazione e reinserimento sociale oltre che di retribuzione e prevenzione. Sarebbe, pertanto, auspicabile una rivalutazione considerevole delle misure alternative alla detenzione sia così come previste dalla legge Gozzini sia anche nell’ottica di una loro futura rielaborazione nonché potenziamento. Il tasso di recidiva nei casi di misure alternative è molto basso e questo favorirebbe oltre che la sicurezza sociale anche la sconfitta del c.d. “ozio dei detenuti” avviandoli verso lavori socialmente utili a vantaggio dell’intera comunità e del loro reinserimento.
E’ vero che la pena serve alla società in quanto potrà riappacificarsi con il reo solo qualora essa sia stata ritenuta la più giusta, ma la pena serve anche al reo stesso per alleviare la propria sofferenza: Caino deve essere chiamato a rispondere perché questo gli consentirà di tornare a vivere. L’utilità della pena non è solo per la società che a pieni polmoni invoca giustizia, ma anche per il reo che attraverso di essa potrà, almeno teoricamente, tornare a essere Uomo in mezzo ai suoi pari, tornare appunto a vivere. Purtroppo, però, la prassi è ancora quella secondo la quale dopo la comminazione e commisurazione della pena la porta dell’aula di tribunale si chiude alle spalle del condannato e più nulla viene fatto in relazione all’esecuzione della stessa. Si tratta di una situazione deplorevole e contraria a ogni senso di umanità.Alla luce di quanto detto finora è, inoltre, possibile rileggere un altro grave problema poche volte messo in evidenza dai giornali e dalla politica, quello delle morti sospette e dei suicidi in carcere. Sul punto vuole chiarezza il dossier “morire di carcere 2000-2011” riportato sul sito www.ristretti.it. In Italia muoiono più di 1500 detenuti l’anno di cui circa 1/3 per cause naturali (viste le scarse condizioni sanitarie carcerarie), 1/3 per suicidio e un 1/3 per cause da accertare, ossia tutti quei casi in cui viene aperta un’inchiesta giudiziaria. Questo dossier ha l’obiettivo di far uscire dall’anonimato queste cifre restituendo loro un volto,un luogo,una storia, un’identità. La peggiore infezione che attanaglia questi episodi è, infatti, l’omertà e l’occultamento della verità avvallato da mass media e autorità. Bisognerebbe, dunque, stracciare il velo dell’ignoranza e passare a riforme che riducano i tempi di custodia cautelare, garantiscano i diritti dei detenuti, depenalizzino reati minori, introducano sanzioni alternative e molto altro ancora. Utopia?
Per ora solo il partito dei Radicali ha dato voce ai problemi delle carceri, vedremo se la campagna elettorale 2013 risulterà un’ulteriore occasione sprecata o se l’esempio del Capo dello Stato porterà altre voci politiche a riflettere seriamente su quella che è stata definita da Napolitano stesso “una delle condizioni essenziali dello Stato di diritto”.
Beatrice Marini