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Cambio lavoro (ed incontro il pop italiano)

Creato il 27 dicembre 2010 da Paperoga

Cambio lavoro (ed incontro il pop italiano)

Ho cambiato lavoro, ed è la solita tragedia. Come tutti i cambiamenti, ne assorbo la negatività come una spugna e il bicchiere, ben lontano dall’esser visto mezzo pieno, appare ai miei occhi del tutto infranto, pieno di pezzi di vetro che ingoio lentamente e in agonia come uno scadente illusionista. Da sempre bramoso di una vita ciclica fatta di puntelli e sicurezze spazio-temporali, non appena una folata esterna mi scombina i pezzi del puzzle quotidiano composto con sagace equilibrismo, sono lento, terribilmente lento a predisporne un altro. E nel frattempo il cambiamento mi stressa, incupisce, insilenzisce, mette di cattivo umore, innerva dal nulla gastriti e psicosomasi varie. Probabilmente per me i cambiamenti sono l’equivalente delle mestruazioni femminili, quantomeno per la puntualità con cui da un anno a questa parte si ripresentano a farmi ogni volta ricominciare daccapo.

Dovendo scendere più nello specifico, posso estrapolare singoli punti di fastidio che sto cercando da giorni di smaltire. 1) Sono diventato un pendolare con tutti i sacri crismi. Se prima ci mettevo 50 minuti dall’uscio di casa all’uscio dell’ufficio, contando un quarto d’ora scarso di treno, all’improvviso la transumanza è diventata di un’ora e mezzo, con un’oretta buona di treno affollato che, arrivato a Bologna, scarica i suoi passeggeri come lo sciacquone di un water. Se prima manco mi sedevo che praticamente ero già bello che arrivato, ora mi devo sorbire combriccole di pendolari di ogni età che utilizzano il treno per chiacchierare e chiacchierarsi di qualsiasi cosa passi loro nella testa. Gli studenti universitari sono più silenziosi e meno fastidiosi dei lavoratori, mentre una vera e propria orda di locuste è composta dagli studenti delle superiori, su cui andrebbero cosparse taniche di benzina e, senza il minimo rimorso, gettato tra di loro un fiammifero acceso. C’è un lato positivo, e cioè che all’improvviso ho due ore al giorno per studiare (che cosa, ve lo dirò un giorno). Forse un ipod potrà isolarmi dalle chiacchiere dei pendolari e dalle  urla scimmiesche degli studenti. In fin dei conti, ci si può abituare. 2) Qualcuno di voi ricorderà che ambivo ad un posto di lavoro “with the least amount of responsibility”, secondo la filosofia di Kevin Spacey in American Beauty. Beh, nel mio precedente lavoro avevo trovato questa formula della felicità. Facevo un lavoro semplice, privo di stress, dove sarebbe stato impossibile sbagliare. Questo mi rendeva leggero e sereno in modo quasi inconcepibile per chi mi guardava fare l’impiegato d’ordine danzando leggiadro tra ufficio ed ufficio a distribuire fax e posta in arrivo, dopo aver passato una vita a studiare le cose più inutili. Quello che però ho imparato, e non era proprio difficile prevederlo, è che se è vero che a grandi obiettivi ed ambizioni corrispondono grandi responsabilità, è anche vero che a pochissime responsabilità corrisponde una busta paga che non ti fa arrivare a fine mese. Ecco dunque che questo nuovo lavoro è un doppio salto, di stipendio e di responsabilità, i cui effetti sulla mia psiche malata e priva di qualunque ambizione dovrò valutare nel tempo. 3) Ho lasciato all’improvviso un lavoro in cui avevo in modo quasi certosino raccolto e tenuto da parte dieci giorni di ferie da spalmare nel periodo sacro dell’anno paperogheo, ovvero quello natalizio. La chiamata a ridosso di Natale ha invece azzerato le mie ferie e mi costringe ora a scrivere questo post il giorno di Santo Stefano, da un Eurostar in viaggio per l’Emilia, dopo aver passati due miserevoli giorni in famiglia, pronto a riprendere domani a lavorare al freddo e al gelo del nord. In un anno ho avuto dodici giorni di ferie e fino a Pasqua prossima non se ne parla. Capirete bene dunque che, davanti a questa prospettiva, ho un bisogno disperato di farmi una canna. Adesso, sul treno. 4) La vera tragedia, però, è un’altra. Nell’ufficio a cui mi hanno assegnato c’è la radio accesa. La radio accesa. Io non riesco a far nulla con la radio accesa in filodiffusione. Forse solo la pupù, se mi concentro. In questo caso però, al rischio di improduttività si aggiunge lo strazio del buon gusto, anche perchè la stazione di riferimento, obbligatoria e immutabile, prevede sette ore al giorno di musica italiana a tutto spiano. Da Cremonini a Venditti, dalle boyband dai nomi spiritosi ai carneadi di Xfactor, dall’Equipe 84 a Pupo. Tutto intermezzato da pubblicità di ditte locali di water o di tolettatura per cani. Altro che pendolarismo, assenza di ferie o maggiore stress da responsabilità. La vera tragedia sta nel rimanere seduti e concentrati su un foglio di excel, mentre tutto intorno a te è scandito dalla ennesima insopportabile cazzata scritta da Jovanotti, dalla maledetta Adesso tu di Ramazzotti, e persino da qualche sparuta nenia arrochita di Franco Califano. Posso sopportare molte cose, anche i cambiamenti improvvisi. Ma Franco Califano no. Franco Califano, NO.

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