Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, ha detto basta, finalmente: stop ai soldi ai giornali, anche se di partito. Troppi magheggi all’interno dei bilanci, troppi dati di vendita fasulli, troppi furbetti pronti a lucrare. Peccato che sia più o meno la ventesima volta che il governo minaccia di chiudere i rubinetti per l’editoria salvo poi ripensarci sempre, perché a mangiare dalla torta ci sono molti amici.
Andiamo a vedere quali sono i giornali più piccoli che ne usufruiscono.
- L’Avanti, giornale del Partito Socialista, diretto dall’ormai famosissimo Valter Lavitola, che nel 2010 ha ricevuto 2,5 milioni. Dichiara meno di 2 mila euro ricavati con gli abbonamenti e 972 mila copie vendute all’anno, circa 2.500 al giorno. Ci lavorano 15 giornalisti, costo del personale 642 mila euro l’anno.
- Liberazione di Dino Greco, di stampo comunista, ha incassato 3,3 milioni, vende 3 mila copie al giorno e conta 750 abbonati. La redazione è composta anche qui da 15 giornalisti.
- La Padania, quotidiano del Carroccio, è guidato da Leonardo Boriani. Ha potuto godere di 3,8 milioni dallo Stato. Vende 5 mila copie al giorno, poche per bocca dello stesso direttore, e il costo del personale ammonta a 2,25 milioni nonostante i recenti tagli.
- Secolo d’Italia, diretto da Marcello de Angelis. Ha usufruito di quasi tre milioni nonostante sia in edicola 260 volte l’anno e venda appena 700 copie al giorno. Impiega 39 persone e per qualche motivo 8 sono impiegati e 8 operai.
- Terra, presieduto da Pino di Maula. Ha ricevuto 2,48 milioni nel 2010. Esce 307 giorni l’anno ed è letto da 613 persone al giorno. Non dichiara l’organico, ma solo la spesa per il personale pari a 825 mila euro.
- Liberal, diretto da Ferdinando Adornato. Ha incassato 2,7 milioni. Nel 2010 ha ricavato dalla vendita del quotidiano e delle riviste 630 mila euro. Il personale costa 1,2 milioni.
- Europa, guidato da Stefano Menichini. Il quotidiano del PD ha ricevuto 3,5 milioni nonostante venda solo 1500 copie al giorno. Sono 25 i membri dell’organico, per un esborso di 1,6 milioni di euro.
- L’Opinione di Arturo Diaconale. 2 milioni di euro dalle casse dello Stato, per bocca del direttore, ma non ufficializzato a bilancio, ha una tiratura di 20 mila copie al giorno e ne vende 3 mila. Costo del personale: 1 milione di euro.
- L’Unità diretto da Claudio Sardo. Ha goduto di 6,3 milioni di euro. Vende circa 42 mila copie al giorno, mentre la tiratura supera le 120 mila. Il personale, recentemente tagliato, costa quasi 10 milioni.
- Il Manifesto, guidato da Norma Rangeri. Ha incassato 3,7 milioni ed è acquistato ogni giorno da venti mila persone mentre la tiratura è di 70 mila. Gli abbonamenti ammontano a 1903. Sono 58 i giornalisti che ci lavorano, per spese che superano i tre milioni.
- Rinascita diretto da Ugo Gaudenzi. La cooperativa ha ricevuto 2,6 milioni anche se i dati di vendita sono incerti. La tiratura dovrebbe ammontare a 20 mila copie. L’organico è composto da 16 giornalisti più l’amministrazione e segreteria che costano un totale di 828 mila euro.
- La Discussione di Antonio Falconio. Ha usufruito di 2,5 milioni e ha dichiarato ricavi dalle vendite per 1 milione, meno di 2 mila copie al giorno. Il personale è di sole 13 unità e bizzarramente nel bilancio sociale figura un leasing di un’Audi A8.
- Il Socialista Lab guidato da Pino de Martino. Miseri 480 mila guadagnati per il giornale di Stefano Caldoro. Vende poche centinaia di copie e risultano solo due redattori, anche se il costo del personale è di 184 mila euro.
- Democrazia Cristiana, diretto da Alfredo Carullo. Fondato dal ministro Gianfranco Rotondi. È distribuito solo ad Avellino e ricava ben 505 euro dalle vendite e 119 mila dagli abbonamenti. Ciononostante ha ottenuto dallo Stato 303 mila euro. Sono solo due i giornalisti e costano 96 mila euro.
In nome della pluralità, è ben conveniente avere molti giornali in edicola, così ognuno può scegliere quello a lui più congeniale. L’esperienza del Fatto Quotidiano, tuttavia, dimostra che un giornale può reggersi anche esclusivamente sulle spalle di lettori e pubblicità. Dunque è lecito domandarsi se sia giusto che le testate ricevano soldi pubblici quando potenzialmente, con un minimo di successo, potrebbero farne a meno?