Il caso Sallusti presenta – sappiamo – due ordini di problemi. Il primo, il più eclatante, l’ho già sviscerato in due articoli: quello che riguardava l’opportunità di depenalizzare la diffamazione (limitandola solo ad alcuni casi specifici) e quello sulla evidente ipocrisia della politica davanti al caso umano; nonostante i vari appelli, la nostra classe politica non pare infatti avere un grande interesse per risolvere legislativamente il problema. Come a ragione dice il direttore di Il Giornale, siamo l’unica nazione al mondo dove si rischia di andare in carcere per delle idee, esclusi naturalmente i paesi sotto dittatura.
Il secondo sfugge ai più e rientra nella più ampia materia dello status del magistrato, che in questo caso assume la qualità di “parte offesa” nel procedimento contro Alessandro Sallusti. Le norme che regolano i procedimenti in cui sono coinvolti magistrati infatti sono piuttosto approssimative e solo genericamente capaci di tutelare l’obiettività e l’imparzialità del collegio giudicante. Il criterio generale è quello del giudizio davanti a un giudice di una corte d’appello differente rispetto a quella in cui il magistato esercita la propria funzione.
Non basta. Non basta perché per quanto si possa dire e affermare che la professionalità e il giuramento di fedeltà prestato dal giudice gli impongano di giudicare sempre e comunque con imparzialità e terzietà, siamo davanti a una situazione del tutto paradossale: un magistrato è chiamato a giudicare il caso di un altro magistrato. Una contraddizione sistematica che non è assolutamente tollerabile in un sistema informato alla garantismo, poiché la categoria dei magistrati rimane l’unica categoria giudizialmente soggetta solo a se stessa. Se tutti gli altri cittadini sono soggetti ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria e il giudice è terzo rispetto a loro, nel caso dei magistrati – seppure cittadini – il giudice è un terzo a “metà”, nel senso che appartiene comunque alla categoria professionale dell’attore, convenuto, imputato, parte offesa del processo. Insomma, una situazione in cui la predetta categoria è arbitra di se stessa, in una sorta di autodichia non dichiarata e non scaturente da nessuna norma di legge e/o costituzionale.
E invece… Invece sarebbe opportuno che quando le parti nel processo siano magistrati (accusa o terzo), venga previsto per il giudizio un meccanismo e una composizione del collegio giudicante e accusante differente. Sarebbe necessaria una integrazione dei collegi anzidetti con figure realmente terze, magari di estrazione popolare. I dettagli li lascio alla fantasia del legislatore.
Quello che invece importa è l’effetto: solo così si potrà realmente garantire il principio costituzionale della imparzialità e della terzietà del giudice (e non solo del giudice), che non può essere valutato solo ed esclusivamente in termini di competenza territoriale e/o materiale, ma anche in termini di non appartenenza del giudice alla categoria di chi per legge è chiamato a giudicare il caso umano in questione.
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