Piero Bigongiari sosteneva che la poesia deve inventare e mai descrivere. <<Perché nella poesia si deve poter entrare e uscire, essa non è un vicolo cieco, ma un passaggio, non deve avere alcun muro terminale neanche se questo si chiama assoluto>>.
Davanti a queste e altre verità di un grande e dimenticato poeta del nostro secondo Novecento, si presenta tutta la povertà di una poesia italiana contemporanea che ha scelto la via dell’impersonale per affermare la sua esistenza sulla scena editoriale. Una presenza che fa della poesia una cosa fredda e arida, in cui quello che si intende privilegiare è il minimalismo iperquotidiano fatto di vuoto e di nulla.
Catalogo dei giorni felici, opera prima di Daniela D’Angelo, è l’esempio calzante di questo diffuso e cattivo modo di fare poesia.<<L’ho fatto una seconda volta, / l’ho fatto di nuovo: / portare via gli abiti dai cassetti degli armadi / da rimanerci chiusa, presa nella rete / tra gli anelli / cadere in trappola senza neanche il gusto / del cacciatore, o della preda>> Questa è la dimostrazione evidente che ci troviamo davanti all’ennesimo poeta dalla vena occasionale. Descrivere alla lettera le cose e le azioni del quotidiano fa della poesia della D’Angelo una sequenza completamente morta di parole che serve soltanto a riempire pagine bianche.
Il poeta racconta occasioni e situazioni senza mai entrare nel cuore delle cose, ma lasciando che il suo verso descriva soltanto quello che accade. Il risultato è una poesia incolore che rende la vita una faccenda antiemotiva e priva di sensazioni . << Quest’alba bianco- latte / ha il cuore vuoto / e si tiene ai bordi. / La scodella è tutta da riempire>>.
Alla fine tutto si polverizza nelle varianti materiche del dato reale. Quello che resta è una poesia che finisce per restare intrappolata nei meccanismi aridi di una cronaca fedele soltanto a stessa, dove è bandita la geografia segreta delle emozioni. E quindi una non poesia.
Nicola Vacca
IBD