Tratto da una storia vera.
In memoria di lei
di Alice Todesco
( C. Bukowski )
Sei una bestia, mi disse,
con quel pancione bianco
e i piedi pelosi.
hai le mani grassocce
due zampe come un gatto
il naso rosso e lucido
e le palle più grosse
che abbia mai visto.
Spruzzi sperma come
una balena spruzza l’acqua
dal buco della schiena.
Bestia bestia bestia,
mi baciò,
che vuoi per
colazione?
Come ogni mattina da quando lei se n’è andata, mi sveglio sulla poltrona con gli occhi gonfi e le palle piene. Il suono della sveglia si insinua ovattato nel mio sonno per poi farsi assordante, come il crescendo di un concerto di musica classica di quelli pieni di signore impellicciate che giuro su mia madre me le sbatterei solo per sentire che odore ha il sudore dei soldi.
Mi alzo dalla poltrona, mi gratto il culo e comincio a viaggiare senza meta in quel porcile di casa aspettando che qualcuno mi faccia un caffè, ma poi mi rassegno all’idea che in quel buco ci sono solo io e me lo faccio da solo. Bevo il caffè ed esco di casa. Puzzo di morte. Forse sono morto. Ho sentito una storia una volta di una signora che è morta ed era talmente sola che per settimane nessuno se n’è accorto, finché il puzzo di cadavere putrefatto non ha sfondato le pareti e i vicini sono entrati. Io non morirò così. La mia morte, lo so, sarà molto romantica. Me ne andrò trasformandomi in oro. Esco di casa e puzzo di morte. Salgo sul furgoncino e accendo il motore. Un sospiro e parto. Il semaforo è rosso. Mi fermo. Un paio di gambe attraversa la strada. Sembrano infinite. Ti rendi conto che hanno termine solo perché un confine a forma di minigonna ne segna il capolinea. Che le gambe delle donne sono belle, sì, ma il culo lo è di più. Ho le mani su quelle cosce infinite, lei si dimena e si contorce ma questo non fa che rendere più inesorabile il lento arrampicarsi della mia mano che arriva sempre più su, fino a oltrepassare del tutto la minigonna. Rispondo alle voci nella mia testa che l’ha voluto lei, che è colpa sua, che è colpa delle sue gambe e di quella minigonna. La spoglio completamente e la lego al letto, ma prima la imbavaglio e la lego al letto perché le sue grida smettano di zittire i miei pensieri. Aaah. Silenzio. Nella stanza buia ora tutto rimbomba e mi monta dentro un bisogno vitale di guardare in faccia la prigioniera. Afferro i suoi capelli e le giro con forza il volto verso di me ma è un viso noto, sì, è il viso di lei. Lei che mi ha abbandonato. Per qualche ragione a cui ancora non ho pensato c’è un coltello sul comodino. Lo afferro e comincio con delicatezza ad incidere piccole rughe su quel volto, seguendone i contorni, e penso che è stata proprio una buona idea imbavagliarla sì, perché riesco a sentire che grida anche attraverso la stoffa e la saliva che le cola fino sul collo. Il semaforo diventa verde. Libero la prigioniera, mi vengo nei pantaloni e riparto.
Arrivo all’appuntamento che puzzo più di prima ed ho un’evidente chiazza sui pantaloni, all’altezza del pube. Mi apre una signora di mezza età, vestita di chiaro. Mi conduce al cesso dove io comincio a fare il mio lavoro, che consiste più o meno nell’aggiustare tubi pieni di merda di gente che caga oro. Ma quello in cui sto infilando le mani ora no, questo non è oro. questa è proprio merda. Mi volto per prendere un attrezzo e lei è lì, e mi guarda con aria provocante. Mi alzo e lei mi infila una mano nei pantaloni sporchi e comincia a toccarsi. La prendo di forza e la giro, piegando a novanta gradi quella schiena scoliotica. Lei si lascia dominare e un momento dopo la sto penetrando. Di nuovo quel bisogno vitale di dare un volto alla mia violenza. Rompendo la laccatura marmorea del capelli, le giro violentemente il collo e il viso è di nuovo quello di lei. Stavolta perdo in controllo. Le spingo la guancia contro il cesso e comincio a sbatterci sopra con violenza ripetuta la tavoletta, finché nella stanza non rimane che il rumore di un lieve gocciolio e un odore acre, simile a quello del sangue mestruale.
Preso l’attrezzo, rispondo alla signora che dalla cucina mi chiede se voglio del caffè. Rifiuto, finisco il mio lavoro, e me ne vado. Cristo, puzzo sempre di più.
Un’ora dopo sono sotto casa sua. Suo fratello arriva un poco più tardi del solito. Si sarà intrattenuto con qualche collega, il maiale. Scende dalla macchina e come mi vede mette mano al cellulare. Prima che ci riesca gli sono addosso e riesco ad impedirglielo. Amico, gli dico, amico perché mi fai questo? Non sono pericoloso, amico, solo innamorato. Voglio solo il tuo aiuto, amico. Tu non sei mai stato innamorato? Ma lui si fa violento e mi dice che no, non sono amico suo e nemmeno innamorato ma solo pazzo, e che devo lasciarli in pace, a lui e a sua sorella. Io mi dirigo verso il furgoncino senza una parola. Lui si avvicina alla porta e fa per infilare la chiave nella serratura. Gli arrivo da dietro e gli assesto un colpo sulla nuca col crick. Lui cade per terra ma io non sono certo che sia morto e continuo a colpirlo finché c’è più cervello sul marciapiede che dentro al suo cranio. Gli sfilo di mano le chiavi, me lo carico in spalla e apro il portone.
( A. Merini )
Gli inguini sono la forza dell’anima,
tacita, oscura,
un germoglio di foglie
da cui esce il seme del vivere.
Gli inguini sono tormento,
sono poesia e paranoia,
delirio di uomini.
Perdersi nella giungla dei sensi,
asfaltare l’anima di veleno,
ma dagli inguini può germogliare Dio
e Sant’Agostino e Abelardo,
allora il miscuglio delle voci
scenderà fino alle nostre carni
a strapparci il gemito oscuro
delle nascite ultraterresti.
Come ogni sera sento la chiave girare nella serratura e mi sento di nuovo al sicuro. So che mio fratello è tornato. So che sta bene. Mi alzo dalla poltrona e spengo il televisore, per raggiungerlo in cucina e dirgli che sono finalmente pronta, che posso cercare un appartamento mio, che non ho più nulla da temere ora. Entro in cucina e quello che rimane di mio fratello è lì, un sacco di concime sulla spalla di un macellaio. Gocciola sangue e cervello sul pavimento di marmo. Come diceva quella canzone? Chissà, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire. Lui butta a terra il corpo e si avvicina a me a passi lunghi. Mi afferra per i fianchi e tesoro, mi dice, tesoro mi sei mancata. Io mi dimeno e mi libero dalla sua morsa e tento di raggiungere la finestra. Ma lui è più forte e più veloce di me e mi butta per terra. Mi rialzo col sangue di mio fratello che si mescola alle lacrime sulla mia gola. Lo guardo e capisco che sono morta nel momento in cui ha varcato quella soglia, con il cadavere di mio fratello addosso. Capisco che i morti non fanno resistenza. Mi abbandono a lui. Mi porta sul divano. Anche se non ne ha bisogno, mi lega mani e piedi assieme e mi imbavaglia. Poi si spoglia, mi alza la gonna, e comincia a fare l’amore con me. La mia morte mi concede ancora qualche istante per pensare, prima dell’oblio. E penso che io l’ho amato. Penso che puzza di morte. Penso che forse è morto, perché i vivi non possono, i vivi non odiano così. Penso che morirò sola, come quella signora che è morta e nessuno se n’è accorto finché il puzzo non ha sfondato le pareti dei vicini. Ho paura, mamma. No, non di morire. Ho paura del momento in cui tu entrerai in questa casa. Ho paura di quello che dovrai vedere. Perdonami, mamma. Pulisci il volto di tuo figlio, mamma, era così bello. Aveva una fidanzata, mamma, te l’avrebbe presentata domenica. Non fare che lo veda così. E pulisci anche me, mamma, pulisci il mio corpo dallo sperma e dal sangue, e pettinami i capelli, e mettimi un bel vestito. Quello bianco, mamma, il mio preferito. No, mamma, non piangere ora. Non è il momento ancora. Ci sarà tempo per piangere. Ricorda, mamma, non ci sono vittime o carnefici, ma solo uomini. Ora tutto è estremamente chiaro. Lui si difende, mamma, lui si protegge. Lui non sa. Non punirlo, mamma, ma educa i suoi figli. Ora ti devo lasciare, mamma, è tempo che io vada. Sento il rumore della busta di plastica che mi avvolge il volto e la nuca, il sapore del respiro che mi si ferma in gola. Ciao, mamma. Ricorda il vestito bianco.