Magazine Lavoro
C’è stato un tempo, prima delle lotte operaie degli anni ‘60, prima del conseguente varo dello Statuto dei lavoratori, in cui il padrone che voleva licenziare un operaio o un impiegato non aveva alcuna regola da rispettare. Bastava un cenno e la vittima abbandonava il luogo di lavoro. Non c’era bisogno di motivazioni, di giudici, d’indennizzi, di reintegri. La libertà, per il padrone, era assoluta. Bastava alzare un dito. E infatti si chiamava licenziamento “ad nutum”, dal latino (“at will” negli Usa). Ovverosia indicando, con un dito, il licenziando.
Certo la scelta non avveniva a casaccio. Il provvedimento era indirizzato verso chi si era distinto nell’organizzare un sindacato, oppure verso chi magari avanti con l’età rallentava i movimenti e denunciava uno “scarso rendimento”. Tutto era fatto per il presunto bene dell’impresa. Per “motivi economici” si direbbe oggi.
Sembrano tempi lontanissimi. Ha raccontato un anziano operaio prendendo la parola in una “Festa” organizzata dalla Fiom e dall’Unità a Bologna che in quegli anni quando le masse dei lavoratori uscivano dai cancelli delle fabbriche prima di varcare la soglia venivano perquisite. Un trattamento riservato agli operai, non agli impiegati. E sempre i soli operai avevano il cesso “alla turca” e se moriva il proprio padre avevano un giorno di permesso, ma con trattenuta del salario. Gli impiegati no.
Erano i tristi anni 50 ai quali molti vorrebbero tornare oggi. E quelli più di moda erano i licenziamenti di rappresaglia diretti nei confronti di chi aveva in tasca la tessera della Cgil. E si creavano per costoro, come alla Fiat, degli speciali “campi confino”. Oggi si gioca d’anticipo e alla Fiat di Pomigliano si riassumono solo quelli che non hanno la tessera Fiom.
Un libro, “Anni duri alla Fiat”, scritto da Emilio Pugno e Sergio Garavini (Einaudi), ha raccontato i tanti casi di licenziati perché avevano organizzato riunioni sindacali, proclamato scioperi. A Torino c’è ancora un’Associazione, dei licenziati per rappresaglia. E in quegli anni c’era stata anche una mobilitazione (oggi purtroppo assai scarsa) degli intellettuali che scendevano in campo per denunciare il fenomeno. Alberto Moravia, ad esempio, aveva partecipato alla redazione di un dossier pubblicato da “Nuovi Argomenti”, nel giugno del 1958.
Poi le cose presero un indirizzo diverso. Giovanni Destefanis, stimato dirigente della Cgil di Torino, ha raccontato come i pretesti per licenziare erano mutati nel 1955 quando si cominciò a licenziare operai “perchè sorpresi ad oziare”, oppure per “lavori non bene eseguiti”. Finchè si arriva alle lotte degli anni 60 che in molti casi riescono a far rientrare le rappresaglie. Così sempre alla Fiat quando nel 1969 c’è il primo “reintegro di massa”. Un gran numero di attivisti sindacali licenziati prima dello statuto e prima della firma del contratto riescono a rientrare in fabbrica.
Sono anni in cui si confrontano nuove leve operaie. Fioravante Stell, membro di Commissione Interna alla Borletti di Milano, raccontava di una lotta costata 472 ore di sciopero in quattro mesi, più due settimane di serrata. Il padrone, senatore Borletti, vice presidente della Confindustria, aveva fatto pubblicare una pagina sul “Corriere della Sera” per denunciare le insopportabili richieste: la riduzione dell’orario, il diritto alla contrattazione. Alla fine l’accordo era stato raggiunto ma subito Borletti si era vendicato licenziando sei-sette ragazzi dai 16 ai 17 anni che si erano fatti notare durante gli scioperi.
Sono episodi del passato che possono riemergere. E che interessano anche i possibili nuovi assunti. Quelli a cui la ministra Fornero promette un futuro un po’ meno precario. Anche loro saranno meno liberi, se passasse lo snaturamento dell’articolo 18, ovverosia ad esempio il libero licenziamento senza possibilità di reintegro anche se motivato da falsi motivi “economici”. Anche loro, i nuovi assunti, dovrebbero stare molto attenti a quella specie di spada di Damocle. E sarà difficile convincerli ad aderire a un sindacato, a protestare per certe condizioni di lavoro, a chiedere dei mutamenti che magari andrebbero anche a vantaggio della produttività. Esiterebbero molto a ricalcare quella strada scelta dai ragazzi della Borletti ricordati da Fioravanti Stell. Sarebbero tutti un po’ più soli, più deboli, più impauriti.
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