Un ciclista è un ciclista sempre. Sulla strada e anche nella vita. Forse soprattutto nella vita. Perché la bicicletta è una compagna perenne che costella la quotidianità di piccoli grandi sacrifici in cambio dei sogni. Claudia Morandini ha incontrato il ciclismo quando ha incontrato Matteo Trentin. Lei, biondissima, occhi azzurri, prima campionessa di sci e poi commentatrice televisiva. Lui ciclista in una squadra belga, successi al Tour e una passione viscerale per le pietre del Nord. Istintiva, esplosiva, concentrata su quel minuto importante una e riflessivo, sempre sul pezzo e abituato alla fatica di ore l’altro. “Troppo uguali e troppo diversi” confessa Claudia. “Quando l’ho conosciuto non avrei mai pensato che potessimo stare insieme.” Una delle cose di lui che l’ha conquistata è stata la sua determinazione, nel ciclismo e fuori. Da quel momento, entrando nella sua quotidianità, ha scoperto l’anima che nascondeva sotto la sua scorza tenace. Seguendolo durante le gare, soprattutto. Perché come dice le stessa, è lì che si rivela tutto, quando fai fatica e le scelte vanno prese subito, in pochi secondi. Lucidità, coraggio, pazzia, tutto in equilibrio.
“All’inizio” spiega, “non sapevo che viaggio avremmo fatto insieme. Poi, quando ho cominciato a capire le sue emozioni, a condividerle, spesso sulla strada, tutto è diventato più chiaro. Avevo voglia di regalargli tutto quello che nessuno mi aveva mai dato durante la mia carriera: fiducia, sostegno silenzioso ma forte, autentico, per guardare insieme verso i traguardi.“
Il romanticismo spicciolo non c’entra niente con questa storia. Questo è un amore che si è consolidato sulla strada, si è spiegato sulle pietre senza parole, come fa il ciclismo con chi lo sa ascoltare con l’anima. La prima volta di Claudia, su al Nord, è stata una specie di rivelazione. È la fine di febbraio e l’aria è gelida quando lui le telefona e le chiede di raggiungerlo. Deve affrontare una gara che negli ultimi due anni l’ha ferito mentalmente e fisicamente. La Omloop Het Nieuwsblad. “Fino a quel momento il pavé l’avevo solo immaginato grazie ai racconti di Matteo” dice. “Ed ero rimasta affascinata dal suo modo di parlarne. Posti che lui conosceva fin da ragazzino, dai tempi del ciclocross, quando partiva con un furgoncino vecchio e restava lontano da casa anche a Natale e Capodanno per poter vivere quella realtà che lo faceva sognare. Un sogno che ho capito davvero solo vedendolo su quelle strade.“
Claudia segue la ricognizione prima della gara con Fitte (il DS) in ammiraglia. Mentre Matteo e Niki Terpstra pedalano sul pavé, si lascia avvolgere dalla magia e dall’incanto rude di quelle strade. In silenzio, si accorge che lui conosce ogni angolo, ogni bivio, ed è come un bambino al quale hanno regalato il gioco preferito. “Il giorno seguente, quello della gara” dice, “ho fatto per la prima volta il tifo sui muri del Fiandre ed ero già diventata una specie di groupie, eccitata da tutto quello che di nuovo vivevo. All’arrivo ho incrociato il suo sguardo e il suo volto pieno di fango e ho visto ne suoi occhi la sfida verso quelle strade cosi dure.” Poi Matteo sul pullman e Claudia su un aereo per l’Italia, uniti da un messaggio: “Sono felice che c’eri“
Poche parole per sigillare tutto. Il coraggio, la comprensione, l’affetto e la discrezione di un amore che, nella sua inconsapevole potenza, ha capito che la bici è una scelta che ti si aggrappa addosso e alla quale bisogna lasciare spazio, tempo. Si fa così, qui, a realizzare i sogni.
“Durante la settimana più importante, quella del Fiandre” racconta. “Raggiunsi Matteo in Belgio. Ogni giorno andava a fare il giro dei Muri. Ho capito poi che aveva bisogno di conoscere ogni singolo punto per sapere dove passare e come affrontarli. La mattina della partenza lo vidi di sfuggita, giusto il tempo di dirgli poche parole: ‘Prenditi quello che è tuo’. Lui era concentrato, sembrava un soldatino pronto per la guerra. E io sapevo che, comunque fosse andata, sarebbe stato un giorno importante della sua vita.”
La corsa, la lunga fuga e poi l’arrivo. L’abbraccio di Claudia, la solita, prepotente sensazione di un’altra impresa conclusa. “Non staccò neanche i piedi dai pedali” ricorda lei. “Si appoggiò a me, esausto. E nei suoi occhi vidi la soddisfazione e l’orgoglio.
Il giorno dopo andammo sul Paterberg, sul Koppenberg e sugli altri muri. A piedi, mano nella mano. Noi due, nel silenzio assoluto dopo la tempesta. Gli chiesi cosa avesse provato ad essere in fuga, da solo in mezzo a tutta quella gente. Mi raccontò che sembrava tremasse la terra, che il tifo era assordante e sentiva ogni tanto gridare il suo nome. Che pensava di farcela. Camminando gli chiedevo come potesse passare sopra quelle pietre con una ruota così sottile e lui sorrise e disse: ‘Devi essere sicuro di farcela, se hai anche una sola titubanza non ce la fai, devi decidere dove passare e sapere che potresti trovarti dall’altra parte.’ Mi ricordo bene queste parole, il suo sguardo di sfida. E so solo che lì, su quelle pietre, lui era a casa.”
Matteo in sella, Matteo nella vita. Ora che Claudia aspetta il loro bambino, queste storie se le ricorda come una ninna nanna. Forse per cominciare a parlare con quella piccola vita che sta per arrivare e spiegargli chi è il suo papà. Un eroe che affronta coraggiosamente le strade più dure. Ma non solo. Perché la bicicletta insegna l’esistenza a chi vuole impararla. “Durante la tappa in Belgio del Tour de France” racconta, “all’arrivo di Lille, c’eravamo proprio tutti. Io, i suoi genitori, Ine e Ian, amici belgi sinceri che hanno la casa tappezzata delle foto di Matteo. Sapevamo che l’indomani ci sarebbe stata una tappa difficile: non volevo mancare. Pioveva fin dalla mattina, la sua giornata sarebbe stata umida, lunga, fredda, nel fango. Ma c’erano i tratti di pavé e sul suo viso rividi quel sorriso di sfida e sicurezza che conoscevo bene.
Guardai il finale dal bus e c’era una particolare aria di eccitazione vedendo che Matteo e Michal Kwiatkowsky, il suo capitano, erano lì, vicini ai primi, pronti a giocarsi la vittoria fino all’ultimo metro. Purtroppo Kwiato bucò a pochi chilometri dall’arrivo ed entrambi uscirono per un attimo dalle riprese televisive. Attimi di gelo e di silenzio assordante. Tutto il resto è storia.
Lo vidi arrivare al bus sporco di fango, con il viso distrutto dalla fatica. Soltanto dopo, in albergo, gli chiesi perché si fosse fermato ad aspettare il suo capitano, sapendo benissimo che avrebbe potuto giocarsi la vittoria di tappa. Non dimenticherò mai le sue parole. Mi disse che in quelle situazioni hai solo due secondi per prendere una decisione e che nel cinquanta per cento dei casi sbagli. In quel momento aveva pensato al suo Capitano, a non fargli perdere secondi preziosi; in due sarebbe stato più facile rientrare e cercare di limitare i danni. Gli chiesi se non avesse rimpianti. Disse che era la cosa più giusta da fare. In pochi attimi devi fare una scelta, a volte è quella giusta, a volte quella sbagliata.
Pochi giorni dopo vinse la tappa a Nancy. E a tirargli la volata fu proprio Kwiato. Quando parlo di quel Tour con Matteo ancora mi ripete: ‘Vedi? Io l’ho aspettato e lui mi ha reso il favore qualche giorno dopo. Tutto torna nella vita e tra noi che facciamo questo mestiere ci sono delle parole che non serve dire perché siamo tutti parte di una grande fatica e di un grande disegno. Spesso ci si capisce con uno sguardo e non dimentichi mai chi c’è stato per te nel momento del bisogno’.
Perché è vero: tutto torna nella vita e se sei onesto con gli altri e con te stesso, potrai solo raccogliere cose belle, stima e rispetto.”
Claudia sorride e pensa alle mani del suo bambino che tra poco potranno stringere quelle di Matteo. Si conosceranno, finalmente. E lei potrà continuare a raccontargli queste avventure che sono un po’ come le storie dei fratelli Grimm. Hanno una morale. Sempre.
Matteo gli insegnerà i valori del sacrificio, del duro lavoro, del rispetto degli altri. E questa piccola vita sarà una immensa forza per affrontare la pioggia, il vento, le pietre cattive. Sarà stretta nel suo pugno, lo stesso che è aggrappato al manubrio. Restano lì le cose vere, le persone che amiamo. Dove batte di più l’aria, dove il freddo è più pungente. Le teniamo lì perché sappiamo che condividono le nostre battaglie e nessuna bufera le staccherà da noi. Mai.
PH credit: Jim Fryer_BrakeThrough Media