di Enrico Porqueddu. Che cosa vi sareste aspettati, un fazzoletto intriso di lacrime, un commiato di acciaio inossidabile, un girotondo di, purtroppo, peccato, è andata così, pazienza… E invece ho in mente di dirvi che il mio giornale, fondato nel 1973, si congeda da voi con quel tanto di scriteriata (ma non palese) baldanza che ha caratterizzato l’intero suo percorso.
Naturalmente lo scriteriato sono io. Sì, perché, quale altro periodico sardo ha saputo resistere circa quarant’anni in edicola, se si eccettua quel tanto criticato (e temuto) “Sassari Sera” di Pino Careddu. Venuto a mancare Pino, fine del suo giornale. Io ancora ci sono ma il mio giornale, dopo questa edizione, non ci sarà più. È come minimo strano che un “figlio” se ne vada prima del “padre”. Volete sapere le ragioni? Potrei tacerle tanto, alla fin fine, a pochi possono interessare. Perché quando un negozio abbassa le serrande, specie in questo periodo di crisi, nessuno ne parla mentre se un giornale cessa le pubblicazioni nessuno se ne accorge?
L’impresa è impresa, può andar bene, può andare male. Il Sassarese non sempre se l’è passata male. Ha conosciuto momenti di meritata serenità economica e tanti altri periodi di… montagne russe. Dal 2009, da quando cioè la redazione è stata spostata da via Carlo Alberto 27 a via Roma 48, le cose hanno cominciato a precipitare. Molti dei presunti amici di importanti imprese hanno negato la pubblicità al giornale e così hanno fatto molte istituzioni che pur avendo in bilancio la pubblicità istituzionale hanno bellamente ignorato Il Sassarese. Si badi bene, non si cada nella trappola della crisi economica che attanaglia il nostro Territorio. Le istituzioni non sono in crisi visto che si pubblicizzano sulle pagine dei maggiori quotidiani e sulle televisioni e sulle radio. Molti cosiddetti responsabili di certe istituzioni hanno bellamente ignorato le nostre richieste e non se sappiamo il perché.
Quando alla Regione sedeva Renato Soru ci fu una vera e propria rivoluzione legata alla pubblicità istituzionale. Lui disse che l’aveva abolita. Nulla di più falso. Abolita sì, ma solo per certa stampa periodica (tipo Il Sassarese) ma non certo per gli altri organi di stampa non citati più sopra. In tempi lontani, agli albori della mia avventura editoriale il giornale si reggeva soprattutto sulla pubblicità del settore mercantile sassarese e isolano in generale. Erano altri tempi e un giornale come questo riscuoteva la fiducia dei commercianti. Ma arrivava anche pubblicità dal Continente tramite agenzie che contattavano la nostra redazione. Col tempo la cosiddetta piccola inserzione è venuta meno. I nostri procacciatori pubblicitari avevano perso l’entusiasmo e avevano scelto di fare altro. È stato allora che la nostra redazione si è impegnata sul fronte istituzionale visto che da quelle parti esisteva (come ancora esiste) nel bilancio la voce “pubblicità istituzionale”. Non sempre si riusciva ad ottenere ciò che si sperava ma la pubblicità arrivava. Poi è calato il sipario. Le istituzioni non rispondevano e quando qualcuno aveva il garbo di farlo diceva che i fondi erano finiti. Ma intanto su altri organi di stampa la pubblicità istituzionale continuava.
Ecco, cari lettori, perché racconto tutto questo? Per dirmi vittima di certi individui che sanno sempre dove parare? No di certo. Lo faccio perché in questi ultimi mesi la voce che Il Sassarese stesse per chiudere si era diffusa e molte sono state le persone che se ne sono dette rammaricate. Beh, non credo a nessuno. O meglio, non credo a tutti. Questa volta il detto “morto un papa se ne fa un altro” non funziona. La stampa periodica isolana è arrivata ultima al traguardo. In effetti in tutti questi anni non mi ero prefisso alcun traguardo. Andavo avanti seguendo l’onda della raccolta pubblicitaria e spesso più che onda erano cavalloni che nemmeno il più esperto dei “nuotatori” riusciva a cavalcare. Quindi, ultima puntata. Che cosa rimane di un’esperienza editoriale di circa quarant’anni e di un’esperienza professionale che di anni ne conta oltre cinquantacinque? Credo ancora il fuoco della passione. Quel dire ciò che si sente senza guardare in faccia nessuno. Senza avere scheletri nell’armadio. Senza pentimenti in ritardo. Senza analisi che non rispondano a quel credo che ha animato tanti anni di lavoro.
E ritorno alla passione: ho sempre voluto fare il giornalista fin da quando avevo i calzoni corti e ci sono riuscito proprio in virtù della passione che non ha mai però sfiorato il fanatismo, l’accanimento intellettuale, la fissazione mentale, l’atteggiamento divistico che, al contrario, è riscontrabile in molti colleghi giornalisti direttori e meno. Un atteggiamento semplice e allo stesso tempo civile e rispettoso degli altri.
Bambole, non c’e’ una lira
Facendo qualche battuta m’è capitato talvolta di dire che il giornalista non è dissimile da un artigiano, un operatore ecologico, un medico di famiglia. Sono solo professioni ma se non le si esercita con passione non valgono nulla. Molti vedono i giornalisti come esseri superiori, privilegiati, quasi dei divi. Nulla di più falso. Quella del giornalista deve (e scrivo deve) essere una professione al servizio degli altri e non di se stessi. Non ci si può gonfiare, riempirsi di se stessi solo perché si ha in mano una penna (oggi il computer).
Raccontare i fatti come avvengono senza aggiungere nulla che non si sia toccato con mano. Sono stati questi gli insegnamenti che mi hanno elargito i miei maestri con grande generosità. E qui mi è piacevole ricordare con orgoglio qualcuno di essi: Roberto Stefanelli, Giovannino Pisano, Vindice Ribichesu, Antonio Pinna, Eliseo Sirigu, Aldo Cesaraccio. I miei primi passi alla “Nuova Sardegna” sono stati mossi grazie alla disponibilità e all’esperienza di questi signori. Con maestri di questo calibro potevo mai fare un giornale che non li rispettasse? A quei tempi in giornalismo si entrava per vera passione, per effettiva disponibilità al dialogo e al rispetto dei lettori. Oggi molti di quei valori sono venuti meno perché molti di quei miei maestri non ci sono più. E quando non c’è una guida è facile perdersi nel sentiero di montagna.
Mentre scrivo questi modesti pensieri mi viene in mente lo stato attuale del mondo dell’editoria, dell’informazione, della stampa in generale. Si parla di imminente scomparsa della carta stampata, oggi c’è internet e tutte quelle diavolerie che ti fanno vivere la notizia in tempo reale. Nutro qualche dubbio sulla scomparsa dei giornali stampati. Ma forse ha ragione quel giovane mio collaboratore che mi dice che devo aggiornarmi, che devo passare alle nuove tecnologie. Ho una mia idea: più si va avanti con la tecnologia più l’essere umano si allontana dall’essere umano. Infatti, che cosa vuol dire che internet avvicina la gente? Con un sms ti dici ciao, come stai, come va, quando ci vediamo. Tu stai da questa parte del globo e il tuo interlocutore dall’altra. Che vicinanza è mai questa? Cosa diversa è passeggiare in via Roma e scansare le persone e a volte anche andarci sopra o camminando trovare l’amico di una volta, un vecchio amore della giovinezza che finge di non vederti per massimo pudore, scansare un cane o un passeggino. Altro che l’arido sms.
E vabbè. Appartengo alla categoria dei nostalgici. E non me ne importa poi così tanto. Il mondo va avanti e quel che dovrebbe preoccuparci è il futuro. Quello dei nostri figli e dei figli dei nostri figli. Anche se poi, a ben guardare, l’alternarsi delle generazioni è come un libro (o anche un giornale) che sfogli a volte anche con un po’ di disinteresse.
L’essere quindi arrivato alla parola fine avrebbe dovuto come minimo animarmi di chissà quanti e quali problemi tutti allo stesso modo riconducibili a quanti in questi tanti anni mi sono stati accanto. Mi sarebbe piaciuto stilare un elenco di amici, colleghi, collaboratori ma sarei caduto nel trabocchetto della memoria. Che non sempre funziona a dovere. Avrei in questo modo rischiato di dimenticare qualcuno che avrebbe potuto accusarmi di irriconoscenza. Non cito nessuno anche se tutti sono nei miei pensieri, quelli a cui devo qualcosa, quelli che mi devono molto, quelli che mi hanno “tradito”, quelli che non ho saputo apprezzare e quelli che non mi hanno apprezzato. Se considero che questo è il mio ultimo articolo non nascondo che mi viene il magone. Poi quel furbino ch’è in mente si affaccia alla mente e mi dice se ne sono proprio sicuro. Già, ne sono sicuro?
Per quanto riguarda Il Sassarese non credo vi sia molto da ciurlare nel manico. Il giornale con questo numero è chiuso. Quando vi capita di aprire il rubinetto e non ne viene fuori nemmeno un goccio d’acqua non potete riempire il bicchiere. Fuor di metafora, bambole, non c’è una lira, diceva un capocomico alle ragazze di una compagnia di varietà.
Per tutto c’è un inizio e una fine. Questa è l’ultima puntata de Il Sassarese. Quindi la fine. Avrei potuto fare come altri editori (si far per dire…) che dopo un anno/due di pubblicazioni hanno chiuso senza salutare i lettori. Ecco, io non appartengo a questa categoria di improvvisati e, se vogliamo, in fondo in fondo, sono stato il primo e soffrirne quando un qualsivoglia foglio ha cessato le pubblicazioni. Prima di me altri hanno quindi sofferto della chiusura dei loro giornali. Forse solo questi signori possono capire quanto doloroso sia scrivere la parola fine. Non ignoro i lettori ( e sono tanti) che hanno seguito Il Sassarese dal suo primo numero. E ne ho molti riscontri. Va a loro, ma a tutti, il mio ringraziamento.
C’è un pensiero che mi perseguita da tempo: se non avessi fatto Il Sassarese che cosa avrei fatto nella mia vita? Mi rispondo da solo ma seguo l’affermazione di un amico scrittore che tutte le volte che mi incontra mi dice: «Enrico, che cosa vorrai fare da grande?». La mia identica riposta da anni è: «Il giornalista».
Nota redazionale: grazie direttore (i direttori sono come i sacerdoti, direttori in eterno), per questo pezzo. Ad majora!
Featured image, l’ultima copertina de Il Sassarese.