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Ciclo di Krebs

Creato il 30 agosto 2010 da Zarizin

di C. M.

Sessantesimo: numero tondo, segno di perfezione.
Vorrei tornare a ieri sera solo perché le cose che mi capitano, le cose fiche, durano sempre troppo poco e questa notte è stata una delle più intriganti dei miei vent’anni. Voglio essere Bukowski e ieri mentre gli leggevo dei suoi versi mi sentivo l’Ebe canoviana, perfettamente neoclassica, per il modo in cui osservava schiudersi le mie labbra parola dopo parola.
Non vivo mai in modo completamente razionale queste situazioni. Penso solo alle scene poetiche e a ricreare le strane scenografie della mia mente nella realtà vivente.
Lui era piuttosto passivo, ma una biscia d’acqua l’ha risvegliato dal sonno e ha aumentato il mio, già piuttosto ansimante, battito cardiaco.
Sono ancora eccitata, ma allo stesso tempo provo una strana forma di rassegnazione non del tutto approvata dal mio organo pulsante. Non m’aspettavo risvolti così compromettenti, tutt’altro. Doveva essere una bevuta in amicizia, avremmo dovuto restare sani forse, ma Pino (il fustino) non la smetteva di pisciare birra e non potevamo riempirne il Lago di Garda.
Ho lasciato che la mia natura nevrotica lo contagiasse, ma non sembrava gli dispiacesse, non si è fatto pregare troppo quando gli ho chiesto di fare un bagno (scindere l’atomo sarebbe stato più complicato, probabilmente). Ci siamo buttati in acqua e le sue braccia sembravano parlare al mio corpo stanco implorandolo di lasciarsi andare. Mi sono aggrappata a lui e mi ha dato un bacio sulle labbra. La sua lingua era intrisa di alcolica passione e la mia di frenesia, ma anche di profonda soddisfazione.

La pioggia ha bagnato i nostri corpi nudi stesi su di un pontile in legno che trasmetteva tutta la freddezza di questo rapporto, ma l’acqua dona sempre poesia, e pioveva, anche sui nostri vestimenti leggeri lasciati in bilico, sul bordo della passerella.
Sentivo la passione forte urlare a gran voce dallo stomaco, ma anche un senso di estraniazione, di allontanamento dalla realtà, di onirismo.
Eravamo un quadro di Dalì, avevamo quei volti strani, sfiniti e folli, come di esseri poco umani che si aggirano nelle sue tele e in quelle del primitivo Bosch.
Avevo freddo, le mie labbra erano scure e la mia pelle tesa e gelida. Non provò nemmeno per sbaglio ad abbracciarmi. Eppure la lettura sembrava averlo stimolato: poco prima Jean Jeudi aveva trovato dimora in un luogo caldo ed ospitale.



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