di Guido Travaglianti
Se in diplomazia la forma è sostanza, il vertice di governo dello scorso mese (11-14 febbraio) tra la Cina Popolare e “l’isola ribelle” di Taiwan, svoltosi nella città simbolo di Nanchino (antica capitale del governo nazionalista istituito nel 1928 sulla base delle idee di Sun Yat-sen, fondatore del Kuomintang, padre della Cina moderna e tumulato proprio a Nanchino) ha avuto un alto valore simbolico, in quanto primo incontro ufficiale tra Pechino e Taipei dal 1949, anno di fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Le cariche politiche riunitesi a Nanchino sono state il cinese Zhang Zhijun, con il grado di Ministro dell’Ufficio per gli Affari taiwanesi della Repubblica Popolare Cinese, e il taiwanese Wang Yu-chi, con l’incarico di Direttore del Consiglio per gli Affari continentali di Taiwan. Prima di analizzare i risultati e la portata del vertice di governo tra Cina e Taiwan appare opportuno ripercorrere la storia recente che ha caratterizzato le tormentate relazioni tra le “due Cine”, rapporti fortemente condizionati dalla perdurante influenza statunitense su Taipei.
La vittoria dei comunisti di Mao e la sconfitta dei nazionalisti di Chiang Kai-shek nella guerra civile cinese (1945-1949) determinò il ritiro dell’apparato politico, militare e di governo nazionalista nell’isola di Taiwan (o Formosa). Nacque così, nel dicembre del 1949, la Repubblica di Cina con capitale Taipei. Da allora, la Repubblica Popolare Cinese ha considerato la riconquista dell’isola ribelle di Taiwan una priorità della propria agenda politica.
La Cina Nazionalista fu subito ammessa, su pressione degli Stati Uniti, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e riconosciuta quale rappresentante ufficiale del popolo cinese da gran parte dei Paesi membri dell’allora Assemblea Generale ONU. La controversia sorta per il riconoscimento internazionale della Repubblica Popolare Cinese a scapito della Cina nazionalista di Taiwan, s’inseriva nell’ambito della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il primo passo cruciale dell’inizio del disgelo nei rapporti tra Cina Popolare e Stati Uniti fu la rinuncia da parte di Washington a porre il veto all’ingresso della Repubblica Popolare Cinese all’ONU. Così, il 25 ottobre del 1971 la Cina comunista entrò a far parte del Consiglio di Sicurezza ONU al posto della Cina nazionalista. Un anno più tardi, nel febbraio del 1972, il Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon compì uno storico viaggio a Pechino, culminato nel “Comunicato di Shanghai”. Per la Cina Popolare furono due i punti di maggiore rilievo inseriti nel comunicato congiunto sino-americano: il primo prevedeva l’impegno di entrambe le parti a evitare ogni atteggiamento egemonico nell’area dell’Asia-Pacifico; il secondo riportava che gli Stati Uniti riconoscevano l’esistenza di una sola Cina e che Taiwan è parte della Cina, impegnandosi ad una soluzione pacifica della questione di Taiwan da parte dei Cinesi stessi.
Cina-Taiwan, stato delle relazioni – Fonte: McClatchyDCNonostante ciò, i primi incontri ufficiali tra la diplomazia cinese e quella statunitense al fine di una completa normalizzazione dei rapporti bilaterali non furono privi di difficoltà: l’insistenza americana nel voler continuare a vendere armi a Taiwan si scontrò con la fermezza cinese sul fatto che lo stabilimento di relazioni diplomatiche sarebbe stato possibile solo a tre condizioni: la fine del riconoscimento americano del governo della Repubblica di Cina (Taiwan); l’abrogazione del Trattato di mutua difesa tra USA e Taiwan; il ritiro del restante personale militare statunitense dall’isola. Fu solo nel dicembre del 1978 che il governo USA accettò i tre principi cinesi necessari allo stabilimento di ufficiali relazioni diplomatiche tra i due Paesi, culminato nel gennaio del 1979. Il comunicato congiunto indicava chiaramente che «gli Stati Uniti riconoscono il governo della Repubblica Popolare Cinese come il solo governo legale cinese secondo cui non vi è che una sola Cina e che Taiwan è parte della Cina». Quanto ai rapporti tra USA e Taiwan, le relazioni commerciali, culturali e di ogni altro tipo sarebbero state condotte esclusivamente attraverso “forme non governative”. Le relazioni tra Taiwan e Stati Uniti dopo il 1979 furono rinnovate e ridefinite con la firma del Taiwan Relations Act, che di fatto accordava a Taipei un trattamento preferenziale al pari di qualsiasi Stato. Gli accordi bilaterali dell’ultimo ventennio sono stati gestiti da appositi uffici creati a Washington e a Taipei, che di fatto funzionano come vere e proprie Ambasciate. Appare dunque evidente quanto abbia pesato e continui a pesare la perdurante influenza statunitense sull’isola di Taiwan sulle difficili relazioni diplomatiche tra Pechino e Taipei.
La posizione ufficiale delle autorità di Taipei, così come dei dirigenti di Pechino, è stata da sempre che esiste una sola Cina. Tuttavia, negli ultimi anni si è consolidata tra i Taiwanesi (e in particolare tra gli elettori del Partito Democratico Progressista) l’idea per cui esiste la Cina ed esiste Taiwan, e che Cina e Taiwan siano pertanto considerate come due entità statali separate. Tale posizione è invece radicalmente rifiutata da Pechino, che punta ormai a una riunificazione tra le due parti (Taiwan è una provincia cinese, sostiene la RPC) ma che ha più volte chiarito che una proclamazione d’indipendenza da parte di Taipei sarebbe considerata da Pechino come un atto ostile al quale seguirebbe una dura reazione da parte cinese.
In parallelo, i rapporti tra le due parti si sono intensificati in diversi settori: fondazioni e comitati sono stati costituiti al fine di affrontare i problemi inerenti la cooperazione bilaterale in campo economico e commerciale, le comunicazioni postali e telematiche si sono fortemente sviluppate, scambi di delegazioni e organizzazione di convegni si sono intensificati e gli investimenti taiwanesi nella Cina Popolare sono sensibilmente cresciuti. L’interscambio economico bilaterale ha fatto sì che le esportazioni da Taiwan verso la Cina siano cresciute del 300% e quelle in senso opposto dell’800%. Più in generale, la politica estera di Taiwan ha seguito la strada del pragmatismo, cercando di sopperire alla marginalizzazione del proprio peso politico e diplomatico con una strategia di ampio respiro imperniata sul sostegno e sulla collaborazione con Pechino nel settore economico, commerciale e culturale.
Il riavvicinamento diplomatico tra Pechino e Taipei si è intensificato dal 2008 con l’elezione del Presidente taiwanese Ma Ying-Jeou, leader del Kuomintang, il cui manifesto politico recita: “No all’unificazione, no all’indipendenza, no all’uso della forza”. L’isola di Taiwan si è così riavvicinata alla terra ferma cinese sia a livello politico sia a livello economico, suscitando il timore dei Taiwanesi che un assorbimento economico possa preludere all’annessione politica con la Cina Popolare. Le preoccupazioni della popolazione taiwanese sono aumentate nel giugno del 2010, a seguito della firma tra i due Paesi dello storico “Accordo quadro di cooperazione economica”, favorito dall’ex Presidente cinese Hu Jintao: l’intesa prevedeva l’abbattimento dei dazi del 16% per i prodotti taiwanesi esportati in Cina e del 10% per i prodotti cinesi diretti a Taiwan, oltre alla possibilità per le aziende taiwanesi di operare nel settore bancario e assicurativo cinese. Il suddetto accordo bilaterale ha suscitato lo scetticismo degli Stati Uniti, principale alleato di Taipei e sua fondamentale garanzia difensiva, giacché dagli USA proviene oltre il 97% degli armamenti strategici (aerei, missili balistici, sistemi antimissile, radar). Inoltre, nel 2012 è stato stipulato l’accordo sulla protezione degli investimenti esteri e sullo sviluppo della cooperazione doganale, attraverso il quale Cina e Taiwan s’impegnano a fornire pari trattamento agli investitori stranieri e a semplificare le procedure doganali.
Il rafforzamento della cooperazione economica tra Pechino e Taipei costituisce allo stato attuale la migliore strategia diplomatica per un’effettiva stabilizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Nel 2013 gli scambi commerciali tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan hanno raggiunto la cifra di 197 miliardi di dollari e circa 3 milioni di cinesi si sono recati a Taipei per lavoro o turismo. Pertanto, oggi Pechino rappresenta il primo partner commerciale di Taiwan, superando Stati Uniti e Giappone. D’altra parte, la nuova amministrazione cinese a guida Xi Jinping ha da principio puntato ad un potenziamento dei flussi commerciali con Taipei al fine di prevenire un’indipendenza de jure dell’isola ribelle, esercitando il suo soft power nei confronti di un’economia orientata all’export.
Cina-Taiwan, commercio – Fonte: ReutersLa questione di una soluzione politica duratura della questione taiwanese, per mezzo di un trattato di pace o di una riunificazione politica, resta allo stato attuale una prospettiva lontana e difficilmente praticabile – nonostante Xi Jinping abbia recentemente dichiarato che tale questione non possa essere rinviata sine die. Dal canto suo, il presidente taiwanese Ma Ying-Jeou ha più volte dichiarato che un qualsiasi trattato Cina-Taiwan dovrebbe prima superare la difficile prova del referendum popolare. Pertanto, il recente incontro ufficiale tra i rispettivi rappresentanti governativi di Cina e Taiwan sembra rivestire un grande valore simbolico, piuttosto che sostanziale.
La Cina di Xi Jinping intende inaugurare una maggiore assertività in campo internazionale allo scopo di perseguire il “sogno cinese” propugnato dal leader cinese nel corso del Terzo Plenum del PCC. In ciò si manifesta tutta l’essenza del pragmatismo cinese: se da un lato la Cina Popolare sta aumentando gli investimenti nel settore militare e riaffermando energicamente le proprie rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale e Orientale (lungo i confini con l’India e negli isolotti Diaoyutai e Senkaku dell’arcipelago giapponese), dall’altro non perde occasione per dichiarare ufficialmente la natura pacifica della propria rinnovata assertività in politica estera. Consolidando i rapporti bilaterali con Taipei, la Cina del Presidente Xi vuole sfidare l’influenza internazionale USA nei mari caldi del Pacifico e ottenere così un’indiscutibile primazia nell’intero Continente asiatico. La Repubblica Popolare Cinese desidera difatti privare gli Stati Uniti di un alleato importante nell’ambito della direttrice di politica estera denominata “Pivot to Asia” (strategia inaugurata dall’amministrazione Obama, che si estende dall’Asia meridionale sino al Pacifico al fine di contenere l’espansione economica e militare della Cina).
La rinnovata distensione cinese con Taiwan sembra più che altro diretta a tranquillizzare la comunità internazionale, e in particolare il Giappone e il governo alleato di Washington, per la crescente aggressività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e Orientale. In ultimo, la Cina di Xi Jinping è consapevole della necessità di sfruttare al meglio il dialogo privilegiato instauratosi con l’attuale Presidente taiwanese Ma Ying-Jeou, prima che le vicine elezioni politiche del 2016 – come Pechino teme – possano sovvertire l’attuale quadro politico e finire così con l’allontanare la prospettiva di una riunificazione cinese della provincia ribelle di Taiwan.
Lo status di Taiwan rimane, pertanto, ibrido: se da una parte è fondata su un sistema politico democratico e su una propria sovranità statale de facto (Taipei intrattiene regolari relazioni diplomatiche con 23 Paesi, tra i quali la Santa Sede), dall’altra è costantemente sorvegliata dal gigante cinese che le nega l’indipendenza de jure, poiché considerata da Pechino come provincia cinese sulla quale grava una legge anti-secessione al fine di congelarne lo status quo. Per queste ragioni, il simbolico vertice di governo di febbraio tra Pechino e Taipei ha il senso ultimo di rinnovare un dialogo complesso e segnato dalla perdurante influenza di Washington sulle sorti di Taiwan.
Lo scenario dei prossimi anni nello Stretto di Taiwan permane fluido: sebbene sia destinato a conoscere un rafforzamento delle relazioni economiche tra Cina e Taiwan, l’equilibrio geopolitico asiatico resta a geometria variabile. Qualora Pechino spingesse per una riunificazione della ribelle Taipei, quest’ultima non esiterebbe a domandare l’intervento di Washington. Bisognerà dunque attendere ancora per comprendere se, alla forma diplomatica del riavvicinamento tra le “due Cine”, seguirà la sostanza di una soluzione politica stabile e duratura sulla questione dello status internazionale di Taiwan.
* Guido Travaglianti è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
Photo credit: AP
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