Perché, sostiene la pedagogista Barbara Laura Alaimo, fondatrice con il marito Angelo Sala di Coder Dojo Milano (http://coderdojomilano.it/), "imparare a programmare un videogioco stimola altre abilità come: essere creativi, acquisire la capacità di problem solving, essere flessibili e collaborativi, ma soprattutto accettare l'errore senza abbattersi perché l'importante non è non sbagliare ma riprovare finché si raggiunge lo scopo".
E infatti il nome Coder Dojo significa "palestra per programmatori". In Giappone il "dojo" è il luogo dove si imparano le arti marziali; nell'antichità la "palaìstra" o "palaestra" era il luogo dove ci si allenava per la lotta.
Ma cosa c'entra la programmazione, attività notoriamente sedentaria, con le arti marziali o la lotta greco-romana?
"In futuro saper programmare sarà una competenza indispensabile per muoversi nel mondo del lavoro e non solo", afferma con convinzione Alaimo.
Meglio quindi imparare fin da piccoli.
Le attività di questo movimento, nato in Irlanda nel 2011 e oggi presente in 27 Paesi, si rivolgono infatti a bambini e ragazzi dai 7 ai 17 anni.
Una sessione di Coder Dojo Milano a Impara Digitale (Bergamo, 29/11/2013)
A frequentarle sono solitamente più maschi che femmine, per un antico pregiudizio che ritiene questo genere di competenze più adatte al genere maschile, mentre si è dimostrato che a volte sono le bambine a rivelare un maggior senso logico.
In genere si lavora in coppia e a ogni coppia viene affidata una "mission": salvare Tokio da un'onda anomala o imparare l'arte del riciclo, per esempio. Utilizzando linguaggi semplici come Scratch o più complessi come Html, Css, Java script e Python, i bambini imparano divertendosi e spesso lasciano sulla pagina Facebook pensieri affettuosi e riconoscenti per i mentor che li hanno assistiti.
Alle sessioni ci si iscrive online e si arriva accompagnati da un genitore. A quest'ultimo però è fatto assoluto divieto anche solo di toccare la tastiera.
Spesso le mamme e i papà ne approfittano per rivelare i loro dubbi e le loro ansie rispetto all'utilizzo delle tecnologie da parte dei figli.
"Assurdo vietarne l'uso - sostiene la pedagogista che a sua volta è mamma di tre figli di 5, 10 e 12 anni - I genitori pensano di assolvere il loro compito con una serie di divieti, ma è sbagliato. Quello che si deve fare è affrontare ogni giorno insieme tutto ciò che si vive: è come quando si insegna a camminare e si sta al loro fianco, accompagnandoli nell'impresa. Il problema è che molti adulti non conoscono il mondo delle tecnologie, ma ci si può informare. Imparando a conoscere gli strumenti si può stare al passo, senza rinunciare al proprio ruolo".
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