Magazine Diario personale

Colonna sonora degli anni più complicati della mia vita

Creato il 24 luglio 2014 da Paperoga

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Per molte persone i ventanni hanno rappresentato e rappresentano gli anni più intensamente vissuti della loro vita.

Sono gli anni dell’università, del cazzeggio, degli esami a singhiozzo, della convivenza selvaggia con altri cazzoni come te. Sono anni di cinema, sport, viaggi estivi, estati ancora ragionevolmente lunghe. Nessun lavoro ancora ad incasellarti e a mangiarti il tempo libero, i soldi te li dà papà, e anche se non sono molti, sono comunque gratis, maledetti e subito.
Sono anni di sbronze con vino pessimo i cui vuoti sono collezionati sulle ante della cucina, di relazioni fisse a simulare un precoce matrimonio, oppure di turbinosi rapporti sessuali senza fissa dimora, sono anni in cui si ha persino il tempo e la presunzione di voler scrivere il grande romanzo italiano, o di sedere ad un tavolino di un bar dissertando di Celine dopo essersi limitati ad ascoltare Capossela.

Beh, per me i primi ventanni sono stati complicati. Noiosi. Pesanti. Sicuramente gli anni più insensati e sprecati della mia vita.
Nulla di grave, per carità. Nessun dramma, nessun lutto, nessuna malattia.
Semplicemente, un ordinario caso di post-adolescenza protrattosi magari un po’ più a lungo. Cosa ci faccio qui, voglio davvero crescere, voglio disperatamente una donna, il futuro mi spaventa e la gente attorno a me, ora che comincio a conoscere la vita fuori dalla famiglia, comincia a farmi schifo. Insomma, le solite cose.
Il quinquennio 1995-2000 è stato dunque il periodo più insulso della mia vita. Compiuti i ventanni, mi sono accorto che le cose attorno a me e dentro di me si stavano complicando. E ancor più si sarebbero complicate in futuro. La vita però continuava, le cose accadevano, ed eravamo nel pieno degli anni ’90. E come spesso capita, c’erano un sacco di canzoni a fare da colonna sonora, a volte triste, a volte esaltante, a quegli anni crudeli in cui crescevo vorticosamente, eppure mi sembrava di rimanere fermo ad un palo, a guardare la gente passarmi davanti quasi ad ostentarmi in faccia la mia stessa inadeguatezza.

1995.

Il mio primo anno di università fu sufficiente a farmi accorgere che avevo preso una cantonata. Di quelle serie. Giurisprudenza mi faceva cagare, quello che studiavo era nella migliore delle ipotesi noioso, l’ambiente universitario era una palla, ed i miei compagni di università erano delle dita in culo proiettate sui loro sogni da notai o da magistrati. Un intero inverno in treno ad andare e venire dal Salento all’Emilia, ogni settimana, con un pesante walkman ad ascoltare i Beatles nelle cuccette notturne che puzzavano di scoregge, attutendo il russare del panzone di turno. Rimango indietro col piano di studi neanche il tempo di finire i primi corsi, per la prima volta mi accorgo studiare non mi riesce naturale come è sempre stato, ed è frustrante. C’è chi all’università decolla, c’è chi frana. Io franavo. Poi viene l’estate, l’estate più piovosa del secolo, almeno in Salento. Ricordo temporali, acquazzoni, un freddo porco. Giocando a pallone mi lesiono un legamento, passo l’estate con una ginocchiera e facendo infiltrazioni di cortisone. L’inossidabile gruppo di amici che mi porto dietro sin dalla pubertà all’improvviso si ossida. I primi scazzi. Le prime persone che si perdono dietro incomprensioni e sfuriate.

E quando ascolto questa canzone, penso alla pioggia e ad un’estate passata in felpa e stampella, ad aspettare che spiovesse.

1996.

L’Università prosegue stanca e sono più le sessioni di esame che rimando che quelle a cui partecipo. Non frequento più le lezioni, di sentire i professori fare un tedioso sunto dei loro libri non ne ho alcuna voglia. Ritorno giù in Salento dopo un’annata mortale passata in Emilia, ma non trasferisco la sede universitaria, che rimane in Emilia forse per un’intuizione che mi salverà la vita anni dopo. Faccio la spola tra Emilia e Salento. Gli esami sono un orrore. Le iscrizioni sono ancora manuali in bacheca, ed essendo fuori sede devo telefonare ad un’agenzia che ti iscrive per la modica cifra di 5 euro. Le sessioni durano un paio di giorni di media, la facoltà di giurisprudenza pullula di aspiranti Di Pietro, passo il tempo a friggere nelle aule affollate di gente terrorizzata. Mi lascio con la mia ragazza dopo 5 anni. Rimando un paio di esami scolvolto. Giro il Salento in vespa con Gastone. L’estate passa malmostosa. In radio passa un pezzo dance un po’ criptico e non privo di ipnotica tristezza. Vorrei averlo ballato in discoteca come facevano i miei coetanei. Ma avevo la scopa nel culo.

1997.

Sono ancora in Salento, gli esami sgocciolano lenti, faccio il capo scout e ne faccio quasi un mestiere. La mia vita in Salento è triste. Mi guardo in faccia con i miei amici di sempre, i sabati sera passati a far niente, e da qualche occhiata profonda scambiata su un balcone in periferia mi accorgo che un paio di loro, come me, sono stanchi di star qui. L’estate la passo giocando a tennis e arrivano le prime sconfitte dopo una vita da imbattuto. Mi tolgo i primi nei di una lunga serie. Giocando a ping pong mi si aprono i punti e da allora avrò per sempre un buco nella schiena come se mi avessero sparato. A settembre con i miei amici vado a Reggio Emilia per lo storico concerto degli U2. Io non entro, non ne ho voglia, rivendo il mio biglietto. Passo la serata in un parco a forma di diamante, e il resto della notte ad aspettare il ritorno degli amici in uno stanzone prestatoci da amici di amici, guardando Telemarket. E decido, mentre per un pezzo di Emilia rimbombano i decibel del concerto, che è ora di darci un taglio. Un mese dopo faccio i bagagli e mi trasferisco in Emilia, definitivamente.

1998

Il primo anno emiliano è il più crudele degli anni. Spaesamento, freddo, solitudine e altre sfighe minori. Vivo in una casa gelida, non ho mai cucinato in vita mia e i primi mesi mi salvano toast e sofficini. Imparo a fare la moka e mi sembra chissà quale conquista. Mi innamoro non ricambiato. Scrivo storie divertenti, assieme a qualche stronzata pretenziosa. Passo moltissimo tempo da solo, quando sono depresso vado in libreria o mi infilo nei centri commerciali a non comprare niente o vado in duomo a guardare i quadri degli altari laterali. Faccio sempre meno esami. Li passo tutti, ma ne faccio sempre meno. Raggiungo il picco di insensatezza e mi chiedo se non sia il caso di mollare tutto e andarmene affanculo. Il capodanno lo passo sulla neve in una macchina gelata con due amici dopo una serata di discorsi tristi e colpi di pistola dai balconi delle case. L’estate la passo in Salento giocando a ping pong e a leggere in spiaggia di pomeriggio. Ho 23 anni e quell’estate la passo con mia sorella. Che non è mia sorella per davvero, ma da quell’estate sarà mia sorella minore, e per molti anni saremo davvero uniti. La sua vitalità, le nostre lotte nel mare e i caffè in ghiaccio di sua madre mi tengono a galla.
Quell’anno Natalie Imbruglia impazza in radio come una condanna. ma c’è sopratutto un gruppo che spara un gran bell’album pop, per poi scomparire nel nulla. Mi crogiolo con il loop di questa canzone, in un tripudio di autocommiserazione. da qualche parte ho ancora il mini CD.

1999. Il secondo anno emiliano va meglio. Gioco a pallone come un matto. Vado al cinema come non succederà mai più. Si allarga la cerchia degli amici reggiani. Alcuni mi diventano davvero cari. Ma non sono a casa, e non mi sento a  casa quando torno in Salento. E’ una sensazione le cui propaggini avverto ancora oggi, e certo piacere non mi fanno. Faccio qualche esame in più, non manca molto, ma odio quello che faccio e quello che studio. la voglia di mandare tutto al diavolo c’è ancora, ma prevale la mia atavica pigrizia e la mia profondissima codardia. Mi vivo addosso, con meno tragicità ma con non meno tristezza. Ho 24 anni ma ne ne sento addosso il triplo. Guardo Dawson Creek e a volte mi commuovo. Mi commuovo spesso, ora che ci penso, per tantissime cose. Per certi versi sono sull’orlo di un pianto continuo, ma dentro ormai il cinismo ci ha fatto il nido, e da allora non se n’è più andato. 2000. Vivo il nuovo millennio macinando esami e recuperando strada. Senza alcun entusiasmo, ma con un minimo di responsabilità, ho 25 anni che cazzo. Sono spesso alla Snai a guardare la juve assieme  spacciatori e altri falliti come me. Quando torno in Salento porto mio nonno in giro a trovare i fratelli ancora vivi.  Chiedo a mio papà di insegnarmi a pescare con la canna da lancio. Passo un’estate a pescare di notte o all’alba. Prendo anche qualche mormora, guardo albe meravigliose e mi sfiguro il viso nella tramontana più feroce. Comincio a starci bene, da solo, come quando ero bambino. Quell’estate ritorna la moda dello yo-yo. Sono pure abbastanza bravo. Ho una relazione un po’ disordinata con una ventenne. Finisce con il cuore spezzato ma molt meglio così. La lascio su un treno che parte per il nord, e vado da mio nonno a mangiare un ghiacciolo. Quando lo saluto da quel momento lo guardo ogni volta come fosse l’ultima volta. Un rituale che durerà ancora quattro anni. Torno in Emilia rinfrancato dal dolore. Mi tolgo di dosso chili di sfiga e rassegnazione. Faccio improvvisazione teatrale, ballo danze irlandesi. Per qualche mese non penso a nulla. L’anno successivo, poi, tutto sarebbe cambiato. E poi sarebbe cambiato ancora tutto, di nuovo. E quei cinque anni mi sarebbero scivolati dietro nella preistoria come una sconfitta fastidiosa ma tutto sommato accettabile, proprio perchè necessaria a tutto quello che sarebbe venuto. Una sconfitta predettami qualche anno addietro da un motivetto irresistibile  che ancora oggi mi capita di di bofonchiare in doccia.  

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