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Come Dragor ha sconfitto la morte (1)

Creato il 17 giugno 2013 da Dragor

   SE ABITATE nella bella città burundese di Bujumbura, si potrebbe credere che la causa della vostra morte sia un ladro che si introduce nella nostra casa dopo avere sgozzato lo zamo e vi fa la pelle perché cercate di cacciarlo via. Oppure una bomba piazzata al Tropicana Beach da FNL, un gruppo ribelle Hutu. Oppure un bufalo inferocito che avete provocato per mostrare a vostra moglie come siete coraggiosi. Oppure un mwamba nero che vi morde il piede mentre fate la doccia. Oppure un islamico che è riuscito a rintracciarvi perfino nell’ Africa centrale e vi sgozza a causa di qualche post leggermente critico nei confronti dell’islam. Invece no, si tratta di un nemico molto più subdolo e insidioso. Un nemico che vi portate dietro da anni. Una spada di Damocle che non sapete di avere appesa sopra la vostra testa.

   LA SPADA è caduta 12 giorni fa. Un mal di pancia terribile come se Balotelli mi avesse tirato una pallonata nel plesso solare. Mi sento tutto gelato e tremo convulsamente, il termometro dice 41. Capisco che la malaria non c’entra, c’è qualcosa di molto più grave. Mia moglie comprende l’urgenza e chiama l’ambulanza. Cosi’, 25 anni dopo, mi ritrovo steso su un lettino a rotelle all’ospedale Prince Ragwasore di Bujumbura con 3 flebo, l’ossigeno, una sonda endonasale e Dédé che mi fa vento con un vecchio giornale. La storia si ripete, tutto era cominciato cosi’. Che debba finire allo stesso modo? Vengo scannerizzato e radiografato, poi arriva il medico. E’ uno ‘zungu belga, spero che non sia un assassino come l’ultimo che mi ha «curato» in questo ospedale. «Lei è in condizioni gravissime», annuncia senza preamboli. «Che cos’ho?» «Uno choc setticemico provocato da un calcolo nella cistifellea. Stiamo cercando di stabilizzarla, ma la situazione puo’ precipitare da un momento all’altro.” «E quando saro’ stabile?» «Bisognerà estrarre il calcolo. Ascolti, lei ha bisogno di cure altamente specializzate che questo ospedale non è in grado di offrire. Dove abitava prima di venire qui?» «A Kigali.» «No, voglio dire, prima di venire in Africa. Dove abitava in Europa?»

   DOVE ABITAVO in Europa? Nella mia mente offuscata dal dolore e dalla febbre balena l’immagine di un’immensa città languidamente adagiata nell’abbraccio azzurro di una grande baia, sovrastata da un cielo puro, dorata da un sole perenne, dominata sul lungomare da un’enorme cupola rosa. «A Nizza…»

   MIA MOGLIE contatta subito Brusselair e quella stessa sera, seduto su una poltrona a rotelle con le flebo e tutto, sono in volo per Bruxelles. Lo schermo personale mi offre L’ Artiste che vedo 2 volte. Grande Dujardin, si è meritato l’Oscar. Arrivo a Bruxelles alle 6 del mattino, alle 9 vengo trasferito su un aereo per Nizza, alle 11 sono a Nizza. Mi imbarcano su un’ambulanza già in attesa che parte verso l’ospedale St.Roch a sirene spiegate. Accidenti, devo essere proprio grave. Dédé mi è seduta vicino e mi fa vento con la copia di Nice-Matin che le ho chiesto di di comprarmi. Attraverso il lunotto posteriore vedo scorci di Nizza: palme, veicoli, gli edifici futuristi dell’Arenas, poi saliamo sulla Voie Rapide, scavalchiamo una buona fetta di città, scendiamo a Lépante e imbocchiamo un lungo tunnel sotteranneo prima di sbucare poco lontano da St.Roch. All’ospedale vengo preso in consegna da un team di Rianimazione che m’inserisce flebo in ogni vena disponibile, mi mette una sonda nel naso, m’inserisce un catetere uretrale e mi collega a una macchina che emette strani ronzii punteggiati da bip-bip, poi vengo nuovamente scannerizzato e e radiografato. Finalmente arriva un medico con una faccia da funerale. «Lei è in condizioni gravi» , annuncia per risollevarmi lo spirito. «Gravi come?» «Molto gravi.» «Molto gravi come?» «Sta per morire.» «Ma no, accidenti, non voglio morire», esplodo. Il medico sembra irritato. “Mi lasci finire, sta per morire se non viene curato.» «Potete curarmi?» Scuote la testa. «No.» «Come, no? Un calcolo si cura. Non siamo più ai tempi di Napoleone III.» «Mi lasci finire. Non possiamo curarla qui a St.Roch. Per questo la mandiamo all’Archet.» Conosco L’Archet, l’immenso ospedale universitario. «E là?» «Cercheranno di asportare il calcolo mediante laparoscopia.»

   BUONO A SAPERSI. E’ sera, Dédé non c’è più, le hanno detto di andare a casa e aspettare notizie. Vengo imbarcato su un’ambulanza e diretto sull’Archet con le flebo, le macchine e tutto. Conosco il percorso. A Magnan svoltiamo nella Madeleine e saliamo verso l’Archet. Là vengo anestetizzato per la laparoscopia. Mi sveglio con un tubo nella gola e le mani legate al lettino. Cerco di gridare, la voce non esce. Cerco di muovermi, peggio che andare di notte. E’ chiaro che mi sono svegliato troppo presto. Un incubo! «Le togliamo il tubo, cosi’ potrà parlare», dice una voce gentile. Detto fatto, il tubo viene tolto. « E quali saranno le sue prime parole? », chiede la voce gentile. «Le mie prime parole saranno: grrrrrrrr, gniiiiiiiiii, porc… acc... E QUESTA SAREBBE UN'ANESTESIA?"

(continua)

Dragor


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