“La casa di Chef” è un racconto scritto da Raymond Carver. È racchiuso nel libro “Cattedrale”. Ha come protagonisti delle persone con problemi di alcol. Wes sta cercando di darci un taglio, Chef è un ex alcolizzato; Edna è la moglie di Wes che dopo averlo piantato, gli offre un’altra possibilità. Accetta il suo invito, e torna a vivere con lui.
Concentriamo l’attenzione sull’autobiografismo; è una delle piaghe che affligge buona parte delle scritture di esordienti. Spesso si crede che per raccontare basti allungare la mano e attingere dalla nostra esperienza.
Siamo certi che funzioni? Oppure, che funzioni solo se abbiamo vissute esperienze estreme (l’alcol, o la droga)?
Un autore di solito sceglie un episodio, una debolezza che conosce bene, per illustrare un cammino. Una frattura. Un distacco o un addio. Perciò quello che a uno sguardo superficiale è “puro autobiografismo”, è invece la rappresentazione di un percorso. O un frammento di quel percorso.
Una situazione che Carver conosceva per esserci passato, certo. Ma l’autore la rielabora imponendo all’esperienza il giogo dell’arte. Cosa vuol dire?
Vuol dire impegno, fatica. Il giogo dell’arte di cui ho parlato, rende la storia uno specchio dove ciascun lettore possa riconoscere la propria umanità. Non quella luccicante degli spot, bensì quella genuina che appartiene a ciascuno. È una sorta di processo di disintossicazione cui il lettore si sottopone. Ecco perché certi autori, o storie, non piacciono e molti chiedono a gran voce “libri che distraggano”.
Qualcuno potrebbe ribattere: ma Primo Levi? Giusto rilievo. La lettura di “Se questo è un uomo” è un tuffo nell’esperienza dell’autore nei campi di concentramento. Al di là della correttezza formale, quello che brucia il lettore è l’orrore creato da alcuni uomini, per annientare altri uomini. Esiste arte in quel libro? Non credo che Levi lo abbia scritto per quello, ma per ricordare.
Il bello della letteratura è che non ci sono regole. A parte quelle grammaticali, e di sintassi, ciascuno può scrivere quello che desidera. Questa non è solo una risposta diplomatica. È la realtà. Ma la trappola in cui si cade quando si leggono autori come Carver è credere che sia sufficiente prendere un episodio, e scrivere. Questo produce una cosa chiamata “resoconto”.
C’è una bella differenza tra resoconto e racconto. Molti credono di raccontare, mentre invece si limitano a fare un resoconto di quanto è accaduto loro la scorsa estate. Buono per i giornali di terza categoria, pessimo per il resto. Raccontare vuol dire spostare il proprio sguardo da quell’ingombrante essere chiamato “Io” per rivolgerlo all’umanità.
Ci vuole affetto per quella massa di sconosciuti che forse nemmeno apprezzerà i nostri scritti. E quell’affetto ci obbliga a prestare attenzione a ogni frase. Nella speranza di possedere il talento che, come si sa, non è democratico. Non frequenta molta gente.
In conclusione. Se vuoi scrivere, bada a fare un deciso passo indietro, prima di iniziare. Meglio due passi indietro. A parte amici e conoscenti, non interessa a nessuno cosa hai combinato ad agosto in quel di Rimini o ad Alassio. Le tue esperienze possono essere solo uno spunto; se non allarghi la tua narrazione in un abbraccio, genererai solo noia.
La letteratura quello è, alla fine: un abbraccio. A volte imbarazzante; a volte meraviglioso.