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Come leggere un racconto – Raymond Carver /16

Da Marcofre

Wes ha lanciato uno sbuffo. Poi è scoppiato a ridere. Siamo scoppiati a ridere tutti e due.

Wes snorted. Then he laughed. We both laughed.

Il racconto “La casa di Chef” sta volgendo al termine. In realtà manca ancora un po’, e soprattutto in questo genere di narrazione, le varie parti devono combaciare in modo perfetto. Ciascuna di esse deve svolgere con diligenza il proprio compito, e consegnare al lettore uno scritto efficace e di valore.

Ci sono diversi pericoli nel racconto. Oltre ai soliti, intendo: vale a dire la presunzione di chi si avvicina a questo genere con l’idea che sia facile scriverli. L’idea che siccome è qualcosa di corto allora deve verificarsi assolutamente un evento devastante.

Oltre a questi, esiste il pericolo di perdere di vista lo scopo del racconto. D’accordo, non è detto che ci debba essere uno scopo; però credo di non sbagliare se affermo che l’onestà deve pervadere ogni riga, dalla prima all’ultima. Onestà e realismo.

In pochi minuti, Wes e Edna si trovano in una situazione inattesa. Ma è lei, Edna che dirige la faccenda. Sono le sue parole che spingono fuori dal rancore Wes. Adesso è un momento importante. L’atmosfera nella casa di Chef si dilata, si rasserena:

Wes ha lanciato uno sbuffo.

Adesso c’è uno spazio “giocoso” per riflettere su quello che accade, è accaduto. Per mostrare i propri sentimenti di gioia.

Ma sono contento che ti sei rimessa quella fede al dito.

But I’m glad you wore your ring.

Le cose non vanno come previsto, sembra dire Wes, però cosa c’è di importante in questi giorni? Cosa c’è da conservare nei ricordi?

Il gesto di Edna: si è rimessa la fede al dito. Quella di Wes è finita chissà dove. Lei non solo ha mollato il suo uomo, ma ha accettato la scommessa (o la promessa?) del marito, di cambiare. E per dimostrare che era disposta a tutto, si è rimessa la fede. Wes lo comprende. Mette da parte quello che sino a poco prima lo rendeva arrabbiato, scontroso, e guarda a quello che è di valore.

Però non è un lieto fine. C’è anche la consapevolezza che tutto può finire da un momento all’altro; o forse sta già finendo?

Sono contento che abbiamo passato questo periodo assieme, ha detto Wes.

I’m glad we had us this time together, Wes said.

Wes traccia un perimetro attorno a quanto stanno vivendo: questo periodo. Sa che replicarlo, renderlo più esteso non è possibile. Lui sembra soddisfatto di quello che è riuscito a ottenere. Probabilmente è al di là delle sue più rosee previsioni.

Qui abbiamo a che fare con la mentalità di chi è abituato a distruggere. Wes è un ex alcolizzato, prova a rimettere assieme i pezzi. Sa che quei pezzi sono soprattutto opera sua; è lui che ha guastato tutto.

Anche qui mi pare ci sia una bella lezione; sottile, quasi invisibile.

Quando si scrive, i bei finali non sono previsti. Perché i protagonisti devono rispettare la regola regina: essere reali, onesti. Trascorrere qualche giorno in una casa fornita da un amico, non modificano il modo di pensare di un uomo. Forse lo “sollevano” da un modo di pensare cupo.

E la tentazione di chiudere il racconto con la speranza, precipitando tutto nel lieto fine, esiste eccome. Non dico che si debba sempre chiudere con una tragedia; ma con l’onestà, sì.

La difficoltà del racconto è tutta qui. È indispensabile evitare la “nostra” conclusione e lasciare spazio alla conclusione della storia. Stavo per scrivere “conclusione naturale”, ma preferisco “conclusione reale”.

Il personaggio può evolvere, certo; però Carver preferisce battere un’altra strada, più ardua. Non lo scaraventa in un futuro pieno di opportunità. Gli fa guardare a quello che accade a lui, e attorno a lui, con gli occhi pieni della consapevolezza di chi sa che tutto muore. Il suo passato è troppo ingombrante per permettergli gioia e ottimismo. La vede, e ne è grato a chi gli ha permesso di goderla: Edna, o Chef.

Però non si verifica l’errore che certi esordienti commettono con estrema facilità. Il finale giusto cioè,  quello che il pubblico desidera. Ma quello che desidera il pubblico non ha sapore.

Quando Carver scriveva che al termine della lettura di un racconto il lettore deve restare in silenzio, immagino che si riferisse a questo. Non congegnare storie o finali “come dovrebbero essere”, ma “come sono”. Punto. Non si tratta di rimestare nel torbido o di pretendere a tutti i costi lacrime, dolore e sangue. Bensì (e qui mi ripeto), di essere onesti, e scrivere con realismo.

Dopo, sarà il turno di Edna, ancora. Lo vedremo la prossima settimana.

Come leggere un racconto – Raymond Carver /15


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