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Come riconoscere il talento?

Da Marcofre

Mi sto sparando nei piedi, lo so. Qualunque altro argomento sarebbe semplice da affrontare, questo è il più arduo.
Il talento non si può apprendere: o ce l’hai oppure no, e bada, viene rilasciato col contagocce. Questa è la sola certezza che abbiamo. Ma l’aspirante scrittore è persuaso di averlo eccome: non è possibile che quelle frasi, quel libro che pure sonnecchia nel disco rigido del computer, sia da buttare.

Un atteggiamento comprensibile. Che viene rafforzato da amici, conoscenti e parenti che spesso soccorrono l’aspirante, dichiarandogli prontamente la propria ammirazione per la sua capacità straordinaria nel tratteggiare personaggi, ideare trame.
Se tutto questo proviene da laureati, è fatta.

Eppure, la letteratura è piena di gente se non illetterata, priva di quei titoli che inseguiamo così tanto.
Per questo, è meglio non affidarsi troppo a chi ha lauree: di solito non ha alcuna preparazione a proposito di scrittura. Che è (anche), possedere un italiano corretto, magari pure musicale.

Ma è solo l’inizio. Occorre riconoscere al volo, o quasi, la capacità di narrare; che più o meno significa scrivere in maniera efficace e interessante.
E qui casca l’asino.

Se una persona è laureata, può dire qualcosa sulla qualità della scrittura: errori e/o refusi, chiarezza espositiva. Sul resto (vale a dire: efficacia; valore e interesse dello scritto), forse no. Non perché sia ignorante (anche se accade, eccome); ma perché non possiede i mezzi giusti, la capacità di discernere il buono dal cattivo.

Per riconoscere un talento, occorre talento. Parenti e amici, siamo certi che ce l’abbiano? A questo, aggiungiamo il desiderio del quieto vivere, che impedisce di assumere toni severi, ed emettere giudizi troppo trancianti.

Un consiglio: diffida di un’opinione che contenga il termine “bello”. Di solito è indice di una volontà che preferisce affrettarsi altrove, o meglio, che ha liquidato quanto letto in breve tempo, e per uscire dal vicoletto, pronuncia quella parolina: bello. Tu sei contento, essi si sono liberati da una grana che rischiava forse, di creare dissapori e malumori.

Una storia, deve avere a mio parere un minimo di complessità; non significa che debba svilupparsi in seicento pagine, avere 43 personaggi che si muovono tra Asia, Africa e Americhe. Può limitarsi a 15 pagine, con un protagonista, e basta. Complessità vuol dire comunicare al lettore qualcosa di scomodo e non ovvio. Qualcosa che non vuol sentire; eppure tu glielo racconti.

Il post si allunga, e rileggo il suo titolo, consapevole di aver offerto solo degli spunti, delle idee. Nessuna indicazione concreta per capire se uno ha o no talento, oppure è meglio che pensi ad altro.
La letteratura è come la vita: difficile. Non esistono ricette per domarla.


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