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Come si scrive un finale?

Da Marcofre

Come concludere una storia? Non importa che sia romanzo o racconto: ma esiste un metodo per confezionare un finale convincente? La risposta sensata è “Boh!”.

In realtà il titolo di questo post è uno dei tanti trappoloni che invento per accalappiare Google e i lettori. Non c’è affatto la ricetta perfetta per chiudere in maniera degna una qualunque storia. Basta dare un’occhiata alla narrativa: ce ne sono di tragici (Moby Dick), di rivelatori o sospesi.

Credo che tutti i romanzi o i racconti, anche quando si concludono, lo fanno solo per rimandare alla storia successiva. Secondo alcuni critici, “Delitto e Castigo” ha un finale convenzionale: a un certo punto il mio caro Dostoevskij ha deciso di confezionare una conclusione sensata e convincente. In pratica, Roskolnikov trova nella religione una ragione per accettare la condanna, e riscattarsi (attraverso la Siberia). Sì, convince: però…

Avrà davvero convinto il suo autore? Non credo: ecco perché dopo ha scritto altri romanzi. E questo lo si fa per riprendere e ampliare un discorso iniziato con la prima storia, e che forse non si concluderà mai. C’è infatti quella faccenda chiamata morte, che quando meno te lo aspetti ti falcia come erba nel prato.

Se perciò chi legge queste frasi pensa che da qualche parte ci sia il sistema, sappia che in realtà sta sbagliando.
Tuttavia, forse c’è una via d’uscita, una specie di soluzione.
Un finale deve essere onesto. Che cosa significa?

Credo di averlo già scritto in passato: onesto deriva da onore. Questo concetto ha a che vedere con la dignità: dei personaggi. Sì, mi pare di averlo già scritto più di una volta, ma è meglio ribadirlo: non sono pupazzi al nostro servizio. Essi hanno una dignità. Mi rendo conto che ad alcuni suona almeno singolare questo modo di considerare la scrittura.

Cosa diavolo dici? Mica esistono i personaggi!

Questo pensa e dice l’esordiente. Ma se non esistono allora scrivi di cosa? Noi siamo fatti di frattaglie e altre parti tutt’altro che nobili. Teniamo anche presente (come diceva zia Flannery: Flannery O’Connor e chi altrimenti?), che questo è un periodo storico dove il materialismo prevale. Ci si sciacqua la bocca con termini quali “cultura”, e si fanno anche gargarismi con la parola “arte”. Ma per disprezzarli meglio, per abbassarli allo stesso livello della mediocrità nella quale sguazziamo.

L’unico modo che si ha di parlare in questo mondo-mercato, è adottare un paio di strategie:

  • Considerare i personaggi come soggetti con tanto di dignità. In questo modo si compie un’azione quasi rivoluzionaria: se questi hanno appunto dignità, questa si trasmette al lettore che deve contare su una prosa efficace, e di valore. E da questi, arriverà ad agire in maniera quasi misteriosa in lui, perché potrebbe iniziare a osservare gli altri con uno sguardo differente;
  • Colpire il lettore. Anche questo è un concetto che zia Flannery usava. D’altra parte, con gente che legge solo se il libro è “utile”, l’unico mezzo che si ha a disposizione per creare una relazione con costoro è appunto colpirli. Non mi riferisco certo a particolari truculenti, o a una prosa zeppa di insulti. Anzi: si parte da un personaggio con una sua dignità, quindi pesante e vivo, per arrivare a trasmettere un’idea della realtà meno ovvia. Colpire il lettore per me vuol dire ricordargli (ma spesso lui NON vorrà ricordarsene) che merita di meglio che il mondo-mercato. Che ha diritto all’arte, al bello. Concetti talmente rivoluzionari che è necessario svilirli, o ignorarli: quando si scoprono è un guaio. Non per l’individuo, bensì per il sistema.

D’accordo: ma come si scrive un finale? Ho già risposto: con onestà. Niente trucchi, scorciatoie. In realtà la storia ha già il suo finale: bisogna solo ascoltare. Ma se non sapete cosa vuol dire porsi in ascolto, siete nei guai.


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