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Comporre. L’arte del romanzo e la musica

Creato il 18 maggio 2015 da Letteratitudine

Comporre. L’arte del romanzo e la musicaIn collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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AA VV - “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”

A cura di Walter Nardon e Simona Carretta

Pubblicazione dell’Università degli Studi di Trento – Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2014

Collana Labirinti, 156

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a cura di Claudio Morandini

La raccolta di saggi “Comporre. L’arte del romanzo e la musica” nasce dal Quinto Seminario Internazionale di Studi organizzato nel 2012-13 dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, che da anni esplora sistematicamente i diversi elementi costitutivi del romanzo. Curato da Simona Carretta e da Walter Nardon, che nell’Introduzione presenta e orchestra i contributi dei relatori, pubblicato nella collana Labirinti, il volume fa il punto con precisione e rigore sui legami più profondi e meno scontati tra la forma del romanzo e la musica ponendosi essenzialmente dalla parte del romanzo e da questa prospettiva guardando alla musica.

E proprio il romanzo (lo precisa Simona Carretta) viene privilegiato non come genere, ma come “arte indipendente”, con “obiettivi estetici e conoscitivi” suoi; questo spiega perché gli interventi non si limitino allo studio di una generica “musicalità” nella lingua o nello stile, aspetto predominante in altri campi letterari come la poesia – senza contare che i rapporti tra musica e poesia, fondati su interrelazioni millenarie, su comuni origini, sono più chiari e più frequentati, mentre è meno scontata, e anche assai più interessante, l’analisi della condivisione di strutture, del travaso di articolazioni complesse tra composizione musicale e romanzo.

1 - Secondo Simona Carretta, è soprattutto “sul piano delle strutture formali… che l’ispirazione musicale ha prodotto i risultati più interessanti”. Alla musica, “commistione perfetta di forma e contenuto”, possono attingere i romanzieri disposti a sperimentare forme inconsuete di organizzazione del testo, adatte a “sviluppare uno sguardo diverso sul mondo”.

Nel saggio “Alla scuola di Broch” Simona Carretta investiga nella produzione di alcuni autori (lo stesso Hermann Broch, Milan Kundera, che nel libro, per competenza musicale, ampiezza di riflessione sul tema e metodicità di applicazione, fa un po’ la parte del leone, e poi Huxley, Perec, Alejo Carpentier, Danilo Kiš) la possibilità di commistione tra forma musicale e forma-romanzo: si parla allora di “polifonia”, di “contrappunto”, di “fuga”, di “variazioni sul tema”. In Kundera, in particolare, quest’esigenza nasce da un’idea ambiziosa di romanzo, in cui la “mise en abyme” di una struttura musicale nell’articolazione narrativa consente di cogliere la complessità del mondo secondo diverse linee prospettiche, pluralità di voci, incastri di linee.

Massimo Rizzante è ancora più specifico nell’analisi di certe pagine di Kundera e in “La fuga romanzesca” rintraccia il procedimento imitativo della fuga (il più complesso, se vogliamo) nell’intercalarsi di voci, temi, situazioni, piani temporali di opere come “La lentezza” e “L’identità”.

In generale, molti interventi non si soffermano sulla musica tematizzata (cioè descritta o raccontata) in un romanzo e preferiscono trattare il rapporto tra arti, tra linguaggi. Il tema è indubbiamente affascinante, e anche tutt’altro che semplice, come sappiamo, perché la musica in quanto “arte del suono” basta a se stessa, parla per così dire di se stessa: ma in quanto musica, cioè architettura, può suggerire impalcature complesse ai romanzieri, come suggerisce Carlo Cenini nel saggio “Innere Stimme, innerer Roman”. Ma altro interessa Cenini, il quale in particolare indaga lo “spettro narrativo” che “infesta” l’opera di uno scrittore, analogamente alle “melodie nascoste” nell’”Humoreske” di Schumann o nel Preludio in do maggiore dal “Clavicembalo ben temperato” di J. S. Bach, e che per Cenini diventa il più significativo e il meno pretestuoso punto di contatto tra musica e romanzo. Come la corrispettiva “melodia-fantasma”, lo “spettro narrativo” deve rimanere nascosto, ogni trascrizione o palesamento dell’indeterminato (come è accaduto al citato Preludio di Bach travasato e travisato nell’Ave Maria di Gounod) è una limitazione fastidiosa. Qui Cenini cita i romanzi sommersi, gli echi di romanzi nelle pagine di altri romanzi, il romanzo silenzioso tra le righe del romanzo scritto, andando dal Borges di “Finzioni” a Foster Wallace.

2 - Altri interventi raccolti in “Comporre” si soffermano sulla questione (insidiosa) della “musicalità”.

Walter Nardon in “Questioni di ritmo (e di composizione)” parte dalla ricostruzione del dibattito sull’origine comune di parola e musica per rintracciare poi esempi di “conservazione degli aspetti musicali nella scrittura”. E vede al lavoro, in certe pagine di C. E. Gadda, una “sottilissima sensibilità musicale” (cioè una maestria retorica nel ricomporre la complessità in un equilibrio armonico) che, al di là di quanto si dice della prosa esuberante e irriducibile dell’autore di “La cognizione del dolore”, porta a risultati “di composta grandezza”. Altri scrittori coinvolti nella disamina di Nardon sono l’inevitabile Kundera e il Bolaño di “2666”.

A sua volta Gabriele Frasca, in un denso intervento tutt’altro che accademico, tra mille cose indaga il romanzo come partitura, da leggere a voce alta, da interpretare come un movimento di sonata: e si concentra su quegli autori che nel Novecento non descrivono, ma chiedono ai lettori di eseguire la musica della loro voce, innanzitutto Joyce – in Joyce il concatenarsi delle immagini segue un corso sonoro, non logico, di suono non di significato, al punto che solo ascoltando la propria voce il lettore può arrivare a coglierne il senso.

Anche Andrea Inglese si sofferma sul concetto di “voce”, “entità ambigua e spettrale” che appartiene, “ma in modo problematico e sfuggente” sia al romanzo sia alla musica. Come elemento di contatto tra le due arti, la voce consegna al romanziere lo strumento per “trasformare il romanzo in qualcosa di musicale”. Inglese procede per excursus, tra Berio che si rifà a Joyce e Bene che legge Byron come fosse uno spartito, fino a Celine, “tra i maggiori scrittori novecenteschi che più hanno sfruttato le potenzialità acustico-vocali del genere romanzesco”: polifonico, contrappuntistico attrito di voci, in cui l’oralità originaria permea tutto il dettato, imprimendo un “timbro” e un “ritmo” che si trasfigureranno nelle ultime prove in “vociferazione assordante”.

3 - Alcuni saggi affrontano la questione della descrizione della musica (della sua “tematizzazione”).  Andrzej Hejmej, in “Comporre. La descrizione letteraria della musica”, sottolinea le differenze, e mostra come la letteratura che tematizza un brano, un’esecuzione, o il momento di una creazione, sia destinata a scegliere tra la lingua tecnica e non letteraria della musicologia, che analizza l’oggetto, e un approccio invece allusivo, metaforico, poetico, che però non espone l’oggetto in sé e, nel costruirvi attorno una sorta di fraintendimento, allontana piuttosto da esso. Per fortuna, esistono diversi gradi intermedi tra i due estremi, c’è sempre la possibilità di contaminare i due linguaggi prendendo dall’uno e dall’altro secondo le necessità.

Di “sfida tremenda” nel raccontare la musica, “perché i due linguaggi sono irriducibili”, parlano anche Elisabeth Rallo-Dichte e Marcel Dichte nel saggio su Christian Gailly, autore francese poco conosciuto da noi, dallo stile nervoso e cadenzato ispirato ai moduli di variazione e improvvisazione controllata del jazz. Ma è una sfida “vitale, essenziale” in questo caso. “La musica parla tacendo e io scrivo della mia sfiducia di non poter tradurre quello che dice” scrive Gailly in “K. 622” (titolo che è anche il numero di catalogo del Concerto per clarinetto in La maggiore di Mozart).

A conti fatti, la pluralità di voci rende questo “Comporre” a sua volta un libro polifonico: voci diverse, stili diversi, diversi approcci, anche diversi modi di interpretare il problema: in tutte questi contributi si sente comunque la fiducia nella capacità del romanzo di trasformarsi, contaminarsi, adattarsi e vivere così mille vite; si percepisce anche un’idea di romanzo come forma privilegiata di indagine della intricata babele del mondo, e la convinzione che proprio i rapporti di esso con la musica siano uno dei migliori campi da tener presenti per lo studio relativo all'evoluzione delle forme narrative.

4 - Coda (ad libitum): che la costruzione musicale eserciti un fascino speciale su chi ambisce a forme narrative non consuete è dimostrato anche da due tra le ultime uscite in libreria. La nuova edizione de “Le variazioni Reinach” di Filippo Tuena (Superbeat, 2015), a dieci anni di distanza dalla prima pibblicazione, racconta la storia di una famiglia ebrea ricca e colta che percorre i momenti più drammatici del Novecento, i Reinach appunto, attraverso una lunga serie di capitoli intitolati come Variazioni, che lavorano su trasformazioni di tono, di stile, di rimandi, innestano affinità e contrasti, contaminano racconto e documento. Alla base sta la Sonata in re minore per violino e pianoforte del 1925 di Léon Reinach, unica sua opera sopravvissuta all’Olocausto, inquieto e nostalgico monumento tardoromantico a un mondo che non esiste più.

Anche Giulio Mozzi, in “La stanza degli animali” e in “Operetta di giugno”, entrambe raccolte in “Favole del morire” (Laurana, 2015) struttura i racconti (o, come li chiama lui nella “Prima notizia”, i “pezzi”) ricorrendo specialmente nel primo a un suggestivo mix di forme chiuse del melodramma e di movimenti di una suite, tra “Recitativo”, “Preludio”, “Concerto”, “Cantata”, “Fuga”, “Canone”, “Sequenza”, “Rondò” (e “Cori” e “Invocazioni” nel secondo). La tentazione di leggere il tutto come un libretto e di immaginare possibili destinazioni musicali è forte.

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