La mia casa aveva un lungo corridoio.
Sembrava il vagone di un treno.
Entravi e sentivi ciuf ciuf, ma era il suono ovattato dei motori che trovava un varco nelle finestre semiaperte della sala, il primo scompartimento a sinistra.
Era raro che fossero chiuse perchè la città in cui vivevo aveva un clima mite anche in inverno.
E poi mio padre e mia madre fumavano ed io con loro, anche se a quell'epoca nessuno dei tre lo sospettava.
Più tardi, da adulto, quando anch'io mi presi quel vizio, cominciai a chiedermi come facessero i miei a cambiare continuamente marca. Un giorno mio padre spegneva cicche dal filtro bianco, il giorno dopo rosso, quell'altro ancora non c'erano più filtri nel posacenere ma mozziconi che mi davano il senso dell'incompiuto.
Anche mia madre era così. Fumava meno ma era incostante anche lei.
Io sono sempre rimasto fedele alle Merit, così come a tutte le cose e alle persone della mia vita. E' la mia indole.
Quale indole nascondeva la volubilità dei miei riguardo al fumo?
Poco più avanti, sulla destra, c'era la cucina. Era grande abbastanza per mangiare ed anche per giocarci e - a volte - addirittura per studiare, tra i profumi del sugo e gli aromi del caffè da poco consumato.
A metà circa del vagone c'erano le due camere da letto, la mia e quella dei miei. Una difronte all'altra.
Nella mia camera c'era un pianoforte Hoffberg marrone, con sopra - al centro esatto - un piccolo busto di Beethoven regalatomi dalla mia insegnante di musica, Eleonora.
Io andavo a casa di Eleonora due volte alla settimana.
Aveva due figli, Maria Luisa e Giorgio.
Giorgio aveva dieci anni ed era più grande di me ma diventammo subito molto amici.
Io arrivavo a casa sua con mezz'ora d'anticipo. Andavamo nella sua stanza e giocavamo a calcio spaccando tutto. La storia si ripetè per circa tre anni, sempre così. Sempre uguale a se stessa.
Poi Eleonora morì.
Morì a causa di un'operazione banale che l'avrebbe dovuta costringere ad una degenza di due giorni al massimo. Mi disse: Martedi non facciamo lezione perchè mi devo operare. Riprendiamo venerdi. Così , almeno per qualche giorno, non mi distruggete la casa.
Tutto finito. Chiuso. Game over.
Il mio pianoforte marrone lo chiusi a chiave. La chiave la riposi nel cassetto della mia piccola scrivania da bambino. La chiave del cassetto la persi ma non mi affannai più di tanto a cercarla.
Forse era giusto così.
L'appartamento difronte al mio era abitato da due brave persone.
Avevano quattro figli, tutti molto più grandi di me. I tre maschi vivevano altrove per via degli impegni universitari. Lina invece c'era. Anche lei studiava pianoforte e ne aveva uno nero in casa. Ogni tanto sentivo i suoi esercizi, le scale cromatiche e quelle naturali. Sentivo tutto nitidamente perchè - sapete - le porte d'ingresso dei due appartamenti erano quasi sempre aperte ed era come vivere in un unica, enorme casa.
Tutti noi - la mia famiglia e la loro - si andava avanti e indietro all'interno di quest'unico, smisurato spazio.
"Avete già fatto il caffè? Allora vengo a prenderlo da voi" era una delle frasi più gettonate. Massimo, da noi è già pronto. Vieni a mangiare qui?, un'altra hit.
Un giorno, mentre mi trovavo nella mia camera, sentii le note del pianoforte di Lina e smisi subito di giocare.
Misi la testa fuori dalla stanza e tesi l'orecchio in direzione del suono.
Le mani di Lina non avevano mai prodotto quei suoni. E neanche le mie, per la verità.
Chi diavolo era?
Percorsi il corridoio, attraversai il pianerottolo ed entrai nella prima stanza a destra del "mio" secondo appartamento.
Seduto al pianoforte c'era un ragazzo alto, magro e con tanti riccioli, che suonava senza spartito.
Neanche si accorse di me.
Io me ne stavo lì. Con lo sguardo ammirato osservavo quelle mani lunghe e affusolate - quelle che madre natura a me non aveva concesso - muoversi con la rapidità del lampo, generando qualcosa che assomigliava ad onde d'avorio con le loro conseguenti risacche.
Si chiamava Sergio ed era il cugino di Lina.
Sergio aveva qualche anno più di me ed un viso sorridente e sognante.
Io avevo soggezione di Sergio, come l'avrebbe avuta ogni bambino smanioso di suonare in quel modo più di ogni altra cosa al mondo ed aveva invece abbandonato gli studi per confrontarsi per la prima volta con l'idea della morte.
Diventammo amici lo stesso. I ragazzi si annusano e si piacciono comunque, lasciano fuori le proiezioni simboliche tanto care al mondo degli adulti, quelle che stoppano sul nascere ogni barlume di relazione.
Sergio cominciò ad attraversare con una certa frequenza il corridoio di casa mia per arrivare nella stanza del vecchio pianoforte marrone.
Io, nel frattempo, ero riuscito a forzare la serratura e a riaprirlo.
Quando arrivava il ricciolino per me era una festa. Mi parlava di una musica che io non avevo mai ascoltato, carica di antiche leggende e di simboli misteriosi. Me la faceva ascoltare sul mio pianoforte e così, pian piano, anch'io ricominciai ad appoggiarci le mani. Quando lui non c'era.
Sono trascorsi alcuni decenni da allora.
Sergio è diventato giustamente famoso. Non ci sono più mio padre e mia madre né i genitori di Lina. Non c'è più Eleonora ed ho di recente saputo che è scomparso anche Giorgio, suo figlio, compagno di mille distruzioni.
Non c'è più neanche il mio vecchio pianoforte marrone.
Quando due anni fa morì mia madre, non volli più toccare e vedere nulla delle cose che potevano suscitarmi un ricordo.
Il vecchio pianoforte giace in un ignoto scantinato del padrone di casa di mia madre. Chissà cosa penserà di quella serratura rotta e di una chiave che non esiste.
Pensate che con un po' d'immaginazione riuscirebbe a scoprire l'arcano?