Come dicevo mi sono trasferita in montagna, e da qui posso finalmente fare ciò che la mia volontà da sola non bastava a fare: stare lontana da internet. È bastato non volere una connessione in casa. Questo sta già garantendo un grande risparmio di tempo e di denaro. Se poi ho bisogno di connettermi vado in un bar (che ovviamente costa) o nella biblioteca pubblica (aperta solo qualche giorno e solo per un paio di ore il pomeriggio), entrambi raggiungibili con venti minuti di cammino* o un viaggio in corriera, che però costa un euro e venticinque all’andata e altrettanto al ritorno. Ho insomma frapposto abbastanza ostacoli fisici ed economici tra me e internet da utilizzarlo infinitamente meno di prima e solo quando mi serve.
Su un blog come come avrete capito sto seguendo molto, quello dell’arcidruido, un commentatore ha riportato la proposta del governo ungherese di tassare internet, e le relative proteste popolari. Senza entrare nel merito dell’autoritarismo e delle motivazioni del governo, l’arcidruido si è detto favorevole a quest’idea. Forse lo sono anch’io, per gli stessi motivi: internet come lo conosciamo ora è un lusso estremo, reso possibile solo dall’energia a buon mercato senza precedenti né futuro di cui godiamo non rendendocene neanche conto, e sarebbe ora di capirlo. Non serve rinunciarvi del tutto, solo limitarne l’uso. Mi sono accorta che, grazie ultimamente ma non solo al proliferare di smartphone, tablet, e aggeggi vari dalla connessione facile, ci stiamo abituando a considerare sia internet che l’elettricità, e tutto quello che si può fare con essi, dei beni illimitati e ubiqui a cui abbiamo diritto inviolabile – un po’ come l’ossigeno. Ho iniziato a notare, ad esempio, che nessuno si fa problemi a caricare il proprio cellulare a casa di altri, come qualsiasi altro apparecchio, mentre prima di prendere del cibo si chiede il permesso con un’apprensione un po’ maggiore. Nei luoghi pubblici è normale avere la possibilità di attaccarsi alla corrente, e lo sta diventando anche quella di accedere a internet. A livello individuale, di casa, sono cose che paghiamo, ma senza tanto starci a pensare; a livello collettivo diamo addirittura per scontato che ci siano dovute. In realtà, l’elettricità necessaria per sostenere non solo gli apparecchi che usiamo, ma soprattutto l’enorme mole di informazioni alle quali pretendiamo di avere accesso immediato attraverso di essi, è un costo a cui contribuiamo solo in parte, attraverso gli allacciamenti e le bollette personali, e che per il resto è finanziato attraverso le tasse, quindi anche da chi non ne fa uso, e in altri modi ancora più subdoli, come la pubblicità. Per cui chi legge le notizie gratis su un qualunque sito è sovvenzionato da chi compra i prodotti pubblicizzati su quel sito, che magari non consulterà mai. Adesso pare che questa modalità si stia estendendo a tutto: dal trasporto pubblico alla musica, tutto è finanziato con la pubblicità, quindi in maniera obliqua, poco trasparente e per nulla equa. Si arricchiscono gli intermediari, ci perdono i consumatori e forse anche autori e artisti.
Per questo motivo io avevo chiesto (e ottenuto, per cui ringrazio) un contributo economico per tenere questo blog libero da pubblicità: così che lo pagasse solo chi lo utilizzava, cioè io e i lettori, e non altri.
Tutto questo per dire che, senza abbandonare internet nel tutto, sto cercando di concentrarmi di più sui supporti fisici e personali e in particolare sulla carta, sui libri che voglio scrivere e su quelli che sto leggendo. In questo periodo sto leggendo Il mondo dei vinti di Nuto Revelli.
Era mia intenzione dedicargli un post a parte, ma non l’ho ancora finito e soprattutto non penso che sia un libro che ha bisogno di commenti. Raccoglie, non mediate, le testimonianze dirette dei contadini e dei montanari della provincia di Cuneo, nati alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, testimoni di due guerre e di un mondo scomparso. Ho preso il libro proprio perché mi stavo accorgendo che rischiavo di idealizzare questo mondo: l’autoproduzione, la vita all’aria aperta, la comunità, i canti, le tradizioni… tutto questo c’era davvero e in parte i narratori del libro di Revelli lo rimpiangono, ma soprattutto raccontano di guerre, oppressione, e più di ogni cosa di una miseria inimmaginabile. Non dobbiamo dimenticare mai, mai, mai, che solo un secolo fa anche in Italia era normale per i bambini lavorare a otto anni, scalzi e coperti di piaghe, tormentati dalla fame e dal freddo, era normale pasteggiare con una sola fetta di polenta e nient’altro, considerare il pane un lusso, non indossare le scarpe per non rovinarle, costruire le case di notte perché di giorno c’erano altri lavori da fare, litigare una vita per un lenzuolo come se valesse un patrimonio, credere alle streghe e scagliare un intero paese contro una donna rimasta incinta fuori dal matrimonio o contro chi rompeva un fidanzamento.
(La morale sessuale in realtà mi è parsa tra le cose più comprensibili: senza contraccettivi, senza diritti legali né test di paternità, l’unico modo per almeno provare ad assicurare un futuro decente ai bambini era terrorizzare le potenziali madri perché ci pensassero mille volte prima di rischiare una gravidanza senza la garanzia di una stabilità economica. In teoria si terrorizzavano anche gli uomini, ma punirli era molto più difficile – un’ingiustizia biologica che ha dato origine a millenni di ingiustizia sociale. Purtroppo poi, una volta sposate, le donne sfornavano figli uno dietro l’altro e dopo si lamentavano della miseria)
Il libro ha una lunghissima prefazione di Nuto Revelli, che ho letto piano piano perché è molto deprimente e perché mi irrita profondamente il modo in cui è scritta, il linguaggio, lo stile. Revelli tende a ripetere le cose tre volte in fondo a ogni frase, a ribadirle, a reiterarle. È del tutto inutile, superfluo, ridondante. Non serve a niente perché il concetto è già chiaro; a me che scrivo e che ci tengo fa venire una rabbia quasi fisica, un rancore, mi sfianca. Eccetera.
Comunque, è un libro che merita perché fa una storia che fino a non molto tempo fa era una storia minore, che io sappia almeno, cioè la storia popolare. Studiando la storia in maniera tradizionale si è quasi obbligati a disinteressarsi di come la stragrande maggioranza delle persone effettivamente vivesse durante i suoi vari periodi, e a chiedersi come ci saremmo trovati noi nell’Impero Romano, nel Medioevo o nel Rinascimento se fossimo nati a quei tempi e non ci fosse toccato in sorte, come è molto probabile anche se dai libri non si direbbe, di essere nobili o di venire istruiti. Può sembrare una semplice questione di curiosità e fantasia, ma non è così: non capire quali sono le conquiste, le perdite e le alternative al tempo presente ci può portare a fare degli errori molto grossi, quali trascurare certi campi di conoscenza o provare un risentimento eccessivo nei confronti della scienza, della medicina moderna, persino della democrazia e della legge e di tutte quelle altre cose i cui giorni potrebbero essere contati ma che ci separano nettamente da tempi precedenti con molte meno comodità e diritti (e non voglio dire che per vivere bene bastino o persino servano comodità e diritti – ma meglio, per poter farsi un’opinione, rendersi conto che ci sono confrontando il presente con il passato).
L’altro libro che sto leggendo è di Nietzsche, non importa quale perché secondo me, finora per lo meno, meritano di essere letti tutti. Nonostante il mio modo di essere, la mia natura e i miei sentimenti, per me Nietzsche è una meraviglia continua, una combinazione incredibile in cui ritrovo, ben esposti, sia pensieri che avevo già avuto spesso solo sottoforma di brevi o semi-conscie intuizioni, sia lati dell’esistenza che non avevo esaminato al suo modo e che i suoi scritti illuminano davanti ai miei occhi da lampi potenti, dopo i quali la percezione delle cose non è più la stessa.
Questi due libri vi consiglio – oppure i miei, ovviamente, :), e a questo proposito ci tengo a specificare che io rispondo sempre alle mail, a meno che non mi arrivi qualcosa di abominevole, e che quindi se non vi ho risposto o non ho avuto modo di accedere a internet o per qualche motivo non mi sono arrivate.
* A questo proposito: sì, sto andando ancora avanti con la storia del rinunciare del tutto all’automobile, passaggi compresi, e devo dire che qui nessuno si è ancora permesso, come invece succedeva spesso a Udine, di prendermi in giro o di attaccarmi in qualsiasi modo per questa cosa. Ogni tanto qualcuno del paese si è fermato per offrirmi un passaggio, io ho spiegato che non vado in macchina, loro hanno annuito e sono ripartiti. Spero di riuscire a continuare nel mio proposito, così da non sentirmi più dire: tu puoi vivere così perché stai in centro città.