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Ora, cosa avrà mai da svelarci di così interessante questa nostra pubblicità? Innanzitutto, abbiamo detto, noi saremo più guardinghi, meno disposti a cedere alle sue malie. Certi giochi di retorica, infatti, certe parole e slogan prima così efficaci, perderanno adesso moltissimo della loro attrattiva; ci sembreranno ridondanti, eccessivi, astratti. Guarderemo con sospetto a quella finta gentilezza con cui ci si invita a comprare, e ci accorgeremo in realtà che si tratta di una vera e propria imposizione. Lo testimonia l’uso costante dell’imperativo, che non ammette insicurezze: tutto infatti è già deciso, senza appello; è certamente quello il prodotto di cui abbiamo bisogno.
Ma non basta. Continuando a sezionare attentamente il nostro spot, scopriremo anche altre cose interessanti. Impareremo a riconoscere, ad esempio, i trabocchetti per la nostra intelligenza. Siamo ormai tutti abituati a visionare centinaia e centinaia di pubblicità diverse, ma ogni volta cadiamo sempre nello stesso tranello. Spieghiamoci meglio. Ci saremo forse accorti che in quasi tutti gli spot ciò che manca innanzitutto è la chiarezza; che cioè il normale intento comunicativo – affidare il messaggio a un’utenza in modo tale che questa lo possa capire – è come soffocato da una strana interferenza, per cui il messaggio, invece di arrivare normalmente a destinazione, si ripiega un’altra volta su se stesso; si fa attendere, desiderare. Spesso la sequenza delle immagini è volutamente spezzata, frammentaria, e la nostra mente è costretta continuamente a rincorrere per cercare di ricostruire a posteriori il filmato nella sua interezza. Così, quando alla fine una battuta, uno slogan o una frase ad effetto decreteranno lo scioglimento dell’enigma, solo allora potremo veramente recepire il contenuto del messaggio. Questo nostro indovinare, d’altra parte, produce in noi stessi una sorta di autocompiacimento, che immediatamente si trasforma in gratitudine verso chi ce l’ha fornito. Ecco quindi che la nostra intelligenza, e quindi il nostro senso critico, sono stati catturati dal messaggio stesso, e non da quanto quel messaggio aveva effettivamente da dire. Non soltanto: lo spot si è riuscito ad attirare anche le nostre simpatie, ed ora è pronto per giocare la sua carta migliore, ovvero quella emotiva.
Chi guarda una pubblicità è giustamente convinto che lo scopo sia il prodotto da acquistare, e in parte ha certamente ragione. Eppure, a ben guardare, quel prodotto è secondario rispetto a tutta la serie di implicazioni che esso stesso comporta. Basterebbe infatti presentare semplicemente l’oggetto, per raggiungere lo stesso obiettivo. Invece questo non accade, e ci troviamo ogni volta ad assistere a filmati sempre più complessi e impegnativi, ambientati nelle sedi più disparate. In questo modo, l’oggetto passa sempre più in secondo piano rispetto all’allestimento inscenato per presentarcelo, e tutto questo non accade senza uno scopo preciso. Possiamo affermare, infatti, che arriverà un giorno in cui l’oggetto non sarà nemmeno più necessario, e le pubblicità, da sole, basteranno a se stesse. Infatti, abbiamo detto, l’oggetto non ha un valore intrinseco, ma lo acquisisce solo in base a un determinato contesto. L’obiettivo primario della pubblicità è proprio quello di creare questo contesto, creare un mondo, alternativo al nostro, simile in tutto tranne che in alcuni particolari importanti: è proprio un mondo realizzato in questi termini, dunque, che rende appetibile l’acquisto dell’oggetto, che lo rende indispensabile e vitale. Basta poco, per convincercene. Proviamo a pensare ai modelli, agli attori, ma non solo; proviamo a pensare anche solo alle famiglie, rappresentate in maniera talmente eccezionale e scostante da sembrare irraggiungibili nella loro perfezione. Le situazioni sono tutte improntate alla vita reale, prendono spunto da presupposti comuni; alla fine però le distanze diventano abissali, e ci propongono eventi e personaggi che noi non potremo mai raggiungere, perché troppo remoti e superiori. Alla fine saremo sempre noi in difetto, noi in mancanza di qualcosa: qualcosa che dobbiamo ottenere, a tutti i costi. La pubblicità fa leva proprio sulle nostre frustrazioni, sul senso di inadeguatezza che ogni giorno ci instilla e ripropone; mette in luce i nostri difetti, prende di mira le nostre sicurezze; ci vuole disposti a cambiare opinioni e pensieri, stili di vita e abitudini con estrema facilità. E questa nostra inadeguatezza rispetto al mondo che ci viene presentato potrà essere sopperita soltanto attraverso il prodotto, che viene ad assumere perciò un ruolo fondamentale, anche se indiretto, in questa corsa affannosa verso il nostro allineamento. Io non desidero infatti quell’articolo in se stesso; io desidero soltanto diventare come loro, essere all’altezza di coloro che me l’hanno presentato. Ecco quindi rilevata l’importanza dell’oggetto.
Tuttavia, lo ripetiamo ancora: quando i diversi mondi delle diverse pubblicità confluiranno in uno solo, invasivo, globalizzante, totale; quando saremo noi stessi contemporaneamente gli spettatori e gli attori di questa enorme farsa; quando insomma quel mondo fino ad ora fittizio, virtuale diventerà definitivamente il nostro mondo, allora degli oggetti non ne avremo più bisogno, perché non sarà più necessario alcun tramite. Oggetti tra gli oggetti, utensili da manovrare. È pronta l’era della reificazione totale.
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