Procuratevi: Giovanni Spadolini, I Radicali dell’Ottocento, Le Monnier 1982; Alessandro Galante Garrone, I Radicali in Italia (1849-1925), Garzanti 1973; Emilio Gentile, Fascismo e antifascismo: i partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier 2000; Annalisa Zanuttini, L’organizzazione del Partito Radicale (1955-1962), Gammalibri 1977; Fabio Morabito, La sfida radicale, SugarCo 1977; e leggeteli, così mi darete ragione, quando dico che «l’aggettivo “radicale” è stato usurpato e sporcato da Marco Pannella»Usurpato, perché è con lui che l’esser radicale si riduce, quasi da subito, con lo statuto approvato dal XXX Congresso (Bologna, 1967), all’avere in tasca una tessera del partito di cui diverrà ben presto proprietario. Come se per dirsi liberali fosse indispensabile essere iscritti al Pli di Stefano De Luca. Come se per dirsi socialisti fosse indispensabile essere iscritti al Psi di Riccardo Nencini. De Luca e Nencini non si azzardano ad avanzare questa pretesa, Pannella sì, perché è riuscito ad appiattire sulla sua persona gli ultimi 50 anni della storia radicale in Italia.Come ci è riuscito? Ne abbiamo già parlato molte volte su queste pagine: ha ripagato con generosità chi gli leccava il culo e ha reso impossibile la vita a chi osava contraddirlo.È così che quasi da subito il partito ha assunto la caratteristica struttura della setta: al centro, un leader carismatico e proprietario; d’intorno, i fedelissimi, psicologicamente e soprattutto economicamente dipendenti, sentinelle della fede, ministri del culto della sua persona, spietati stalker dei dissidenti; più all’esterno di questa cerchia, i cosiddetti «militonti», corpo mistico della «cosa radicale» quando in piena comunione, sennò«brava gente» non immune dalla perniciosa disinformazione del regime quando si lamentano perché non riescono ad afferrare al volo le ragioni del salvare il culo a Cosentino o dell’andare alle urne in compagnia di Storace.
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Procuratevi: Giovanni Spadolini, I Radicali dell’Ottocento, Le Monnier 1982; Alessandro Galante Garrone, I Radicali in Italia (1849-1925), Garzanti 1973; Emilio Gentile, Fascismo e antifascismo: i partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier 2000; Annalisa Zanuttini, L’organizzazione del Partito Radicale (1955-1962), Gammalibri 1977; Fabio Morabito, La sfida radicale, SugarCo 1977; e leggeteli, così mi darete ragione, quando dico che «l’aggettivo “radicale” è stato usurpato e sporcato da Marco Pannella»Usurpato, perché è con lui che l’esser radicale si riduce, quasi da subito, con lo statuto approvato dal XXX Congresso (Bologna, 1967), all’avere in tasca una tessera del partito di cui diverrà ben presto proprietario. Come se per dirsi liberali fosse indispensabile essere iscritti al Pli di Stefano De Luca. Come se per dirsi socialisti fosse indispensabile essere iscritti al Psi di Riccardo Nencini. De Luca e Nencini non si azzardano ad avanzare questa pretesa, Pannella sì, perché è riuscito ad appiattire sulla sua persona gli ultimi 50 anni della storia radicale in Italia.Come ci è riuscito? Ne abbiamo già parlato molte volte su queste pagine: ha ripagato con generosità chi gli leccava il culo e ha reso impossibile la vita a chi osava contraddirlo.È così che quasi da subito il partito ha assunto la caratteristica struttura della setta: al centro, un leader carismatico e proprietario; d’intorno, i fedelissimi, psicologicamente e soprattutto economicamente dipendenti, sentinelle della fede, ministri del culto della sua persona, spietati stalker dei dissidenti; più all’esterno di questa cerchia, i cosiddetti «militonti», corpo mistico della «cosa radicale» quando in piena comunione, sennò«brava gente» non immune dalla perniciosa disinformazione del regime quando si lamentano perché non riescono ad afferrare al volo le ragioni del salvare il culo a Cosentino o dell’andare alle urne in compagnia di Storace.
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