Magazine Diario personale
Cari illuministi, non posso farvi un riassunto su quanto è accaduto negli ultimi tre secoli, ma voglio comunque aggiornarvi, portandovi – debbo dirvelo – ahimè una cattiva notizia. Molte delle cose contro le quali avete lottato continuano a esistere più forti che mai, benché in altre forme e con altri nomi. Sono, quindi, meno riconoscibili e come tali meno contrastabili: se il nemico è sparso e dispersivo, e si chiama per giunta con un nome fico che ne tradisce l'essenza, è difficile che si crei un esercito pronto a combatterlo. Come avviene nel calcio, se mancano due colori ben definiti, due posizioni chiare, non può esserci una partita.Avete combattuto contro i privilegi, la fede cieca e la superstizione, ebbene tre secoli non sono bastati per estirparle – ancora c’è qualcosa come un papa, con uno stuolo di cardinali al seguito, con un patrimonio immobiliare da capogiro che, pensate, non pagano neanche le bollette a differenza di tutto il resto della popolazione (evasori a parte), e tutto questo lo chiamano Dio. Pensate che ancora oggi – giuro! Voltaire non fare quella faccia! – la gente si svena per vedere la reliquia di uno sconosciuto che qualcuno ha definito santo, si va in pullman con colazione a sacco ad assistere ai miracoli di statuette che piangono o santoni che predicano che la vera vita viene dopo. In tv – poi vi spiego cos’è – si dà più spazio a preti e papi che a tutte le cose importanti. Nelle scuole si insegna la religione cattolica ma non la coscienza civile, l’educazione sessuale e tutte quelle conoscenze utili a un mondo praticamente migliore, e mentre i beni della chiesa si moltiplicano come i pani e i pesci del suo fondatore, di beni a chi prova a cambiare il mondo senza la parola Dio neanche col binocolo. Ma basta parlare di chiesa che mi sale l’embolo.
Quello che davvero non ha fatto mezzo passo indietro è il principio d’autorità. Lo avete combattuto con ogni mezzo. E invece è ancora là, vivo e fulgido più che mai.
Oggi è sparso un po’ ovunque – è nelle istituzioni, è nel quotidiano, è nelle parole e nei pensieri, è nella cultura, è negli stipendi, è negli atteggiamenti, in ogni ambito lo trovi là che deambula bellamente. Eppure questa dispersione non è segno di un suo indebolimento, ma piuttosto il sintomo della sua sempreverde pervasività.
Come si diceva nella Francia Nord-Orientale del ‘700, famo a capisse. Il principio di autorità può essere definito come quell’approccio che consiste nel riconoscere valore a qualcosa o qualcuno non sulla base di valutazioni oggettive relative al suo valore o merito, bensì sulla base che…tutti gli altri gli riconoscono valore. Sì, evidentemente, siamo in pieno regresso all’infinito - o, se preferite, ‘ragionamento’ circolare.
Nella teoria dell’argomentazione il principio d’autorità diventa la fallacia ad verecundiam: il giustificare la propria tesi affermando che è vera perché ipse dixit, perché l’ha detto una auctoritas. È evidente che “l’ha detto lui” non è un argomento, ma una delega o un temporeggiamento. Una specie di depistaggio, sospeso fra le premesse e la conclusione – intanto, di un ragionamento neanche l’ombra. Anche nella logica del discorso emerge dunque l'essenza del principio di autorità.
Quanto alla vivida realtà, facciamo degli esempi. L’atteggiamento spocchioso del docente, dell’autore di 10 romanzi, del direttore generale, dell’assessore e del consigliere, del presidente e del sottosegretario eccetera, sono incarnazioni del principio d’autorità. Il docente può esser lì perché, facciamo, ha leccato bene i piedi durante la sua carriera (e sottolineo carriera), pur avendo una mente mediocre e scarsa attitudine all’approfondimento - può anche esserselo meritato, naturalmente, ma le probabilità che sia lì per merito e quelle che lo sia per leccapiedismo rampante hanno buone possibilità di equivalersi. I 10 romanzi possono essere brutti, pessimi, eppure restano ’10 romanzi’, sicché il loro autore sarà uno 'scrittore' e come tale applaudito e osannato. Il pensiero, diffusissimo nel senso comune, se la tira, perché se lo può permettere ne è un riflesso. Il ritenere che un laureato sia necessariamente più intelligente di un non laureato: è veramente strapieno di laureati incapaci di ragionare, giuro, per non parlare dei problemi di ortografia. Il ritenere il 50enne come intrinsecamente più credibile di un 20enne. Il ritenere che un abbigliamento casual o un po’ trasandato sia indice di scarsa serietà. Attribuire all'apparenza - al senso comune a essa associato - un indice di valutazione sostanziale della persona. Il ritenere che fare l' operaio sia una condizione sostanziale e non accidentalmente lavorativa, idem per il professore, l’avvocato e via dicendo. L’ideologia dei titoli e delle medaglie – i cui criteri di assegnazione sono molto spesso emanazione dello stesso principio – è un chiaro riflesso del principio di autorità. Il ritenere che, comunque, bisogna dare valore alle pratiche portate avanti da qualche famoso&applaudito piuttosto che alle pratiche intrinsecamente valide.
Il valore di scambio di una persona (es. un vip) rispetto al suo valore d’uso (il suo essere incapace di fare, ma soprattutto essere alcun ché) è un'evidente espressione del principio di autorità - e mi si perdoni la metafora economicistica applicata alle persone. Il principio d’autorità è, cioè, una specie di valore di scambio sociale – questo valore non è intrinseco, bensì determinato da dinamiche esterne, quelle del mercato, in questo caso del mercato della credibilità.
Il principio d’autorità dà fondamento a una gerarchia non fondata sul merito, ma su un non meglio specificato tu sei più importante e più credibile perché lo dicono tutti e non mi interessa verificarlo chiuso-l’argomento. Il ragionamento - con tutte le virgolette del caso - è "X ha detto che P. Quindi P". Questo avviene nelle aziende, nelle istituzioni, nelle istituzioni politiche e culturali, persino nell’associazionismo, nella stampa, nei media in generale. Ovunque. Siamo pieni fino al collo di gerarchie prive di una base sensata, e in quanto tali forme pure e semplici di dominio di un essere umano sul malcapitato prossimo. Esse di solito sono giustificate da meccanismi lontanissimi dal riconoscimento del valore oggettivo della competenza: le relazioni giuste, il parassitismo, l’essere di buona famiglia, il più spregiudicato arrivismo, uno spiccato savoir faire, una disinvolta estroversione, livelli astronomici di autostima (perché se credi ciecamente in te stesso tutto è possibile), sono i criteri di selezione delle classi dirigenti. Certo, da qui a dire è tutto un magna magna il passo sembra breve. Il punto è che tutto ciò appare più come la norma che come l'eccezione. Non sembra, cioè, strutturalmente integrato al sistema (politico, sociale, culturale, ecc) il principio contrario a quello di autorità, che potremmo definire, che so, principio del merito, o principio della ragione, o meglio principio critico. Andare contro il principio di autorità significa spesso macchiarsi di un reato di lesa maestà. E' quanto ci sia più bisogno al giorno d'oggi, direi.
Il principio d’autorità, voglio dire, è il grande criterio selettivo nella lotta per la sopravvivenza di oggi. Sopravvive chi meglio e prima si adatta a questo criterio – è evidente, in questo quadro, chi è veramente il più forte. Allora, avremo tutti gli atteggiamenti simmetrici. Sei autore di 10 romanzi? Non li ho letti, ma ti guardo con meraviglia, cerco la tua amicizia e magari ti passo il curriculum. Tieni sempre conferenze con soggettoni importanti, su temi altisonanti con invitati in pompa magna? Non importa quello che dici, sei comunque uno importante, che meriti un po’ di manfrine e ammirazione a prescindere. Anche le persone più illuminate fanno proprio tutto questo.
Si tratta di un meccanismo estremamente autoconservativo. In tal modo si è totalmente protetti dal nuovo – c’è una barriera enorme frapposta tra lo status quo e un cambiamento, ebbene questa barriera enorme si chiama principio d’autorità.
Potrei continuare a lungo, eh. La classe media, ai tempi della Rivoluzione, giustamente prese i forconi contro i privilegi di pretucoli e oligarchi, giustamente si credette in un grande cambiamento, che in effetti ci fu e di cui almeno ci godiamo qualche effetto formale. Tuttavia, i privilegi esistono ancora e non si esauriscono, come un nuovo movimento detto Siamo la Ggente il Potere ci Temono crede, solo negli stipendi e nelle indennità di lusso dei politicanti di professione. Del privilegio dell’essere credibile senza essermelo davvero meritato c’è traccia ovunque, anche sotto il nostro naso. Il principio d’autorità è la grande ideologia, il grande alibi, la grande giustificazione e legittimazione di questi privilegi – e l’ideologia, sappiamo, serve sempre a rendere immutabile uno stato di cose che fa comodo a qualcuno.
Vi è poi un principio d'autorità interiorizzato. Lo vediamo in particolare nella reverenza, nel servilismo, insomma nel leccapiedismo spinto. E' una cosa abominevole e diffusissima, soprattutto presso le persone perbene. In particolare mi assale la memoria un ricordo: un'assistente di un professore ordinario, si profondeva in "quanto zucchero vuole?", "le prendo un tè o un caffè, come preferisce?", ma soprattutto, la ragazza giovane, faceva tutto ciò col sorriso, un sorriso che ahimè nascondeva un sottilissimo dubbio di umiliazione - perché il prof. rispondeva seccamente come fosse la sua servetta. La dottoranda (o chi fosse) era una servetta. Il prof. era l'incarnazione spocchiosa e viscida del principio d'autorità. Ma ci sono altri, forse peggiori esempi di leccapiedismo - soprattutto verso i politici, la gente spesso si rivolge loro col cappello in mano e angolazione a 90°. Quelli, di contro, pompano il loro ego e riproducono all'infinito questa istanza di onnipotenza originaria, resa possibile da un popolo con la testa bassa.
Lo vediamo spesso presso i dipendenti pubblici - non tutti, ma tanti, tantissimi -, che il fatto di avere il posto che hanno li fa sentire esentati dall'essere capaci di far qualcosa. No, non intendo fare mia l'idea protoliberista della vita come performance, ci mancherebbe. Quel che intendo, è riflettere su questa gigantesca campana di vetro che le persone si costruiscono attorno e costruiscono al prossimo con la più cieca fede nel valore di scambio delle cose. Siamo agli antipodi del pensiero critico e dell'intelligenza, siamo alla fede. C'è tutta un'economia che si basa su questa fede - o, meglio, potremmo dire che c'è un'economia bloccata da questa fede... ma questo discorso non mi compete. Quel che salta agli occhi è che siamo nel XXI secolo e il senso comune, le istituzioni e tutto quanto, siano intrisi da un principio che nel '700 fu aspramente messo in discussione, ma la lezione illuminista, evidentemente, è stata compresa limitatamente. C'è il parlamento, qualche parvenza di democrazia, ma la base è questa.
Il merito e i fatti sono la base di un pensiero critico. Il principio d'autorità è la base del millantare, degli allori, dei narcisismi, delle convegnistiche compiaciute, del "l'ho detto io o l'ha detto lui quindi è vero", della gerontocrazia, delle antiche e nuove aristocrazie della realtà e del pensiero.
Se in tre secoli siamo ancora allo stesso punto, c’è molto da lavorare, e temo non basti un’enciclopedia o un’arguta pamphlettistica per invertire la rotta. Diderot, Voltaire, Rousseau, non vi adirate. Calma e sangue freddo, diceva un tizio al Festivalbar. Macchiamoci di questo reato di lesa maestà quando il "millantare" si sostituisce pericolosamente all'"essere": per amore di giustizia, certo, ma soprattutto di verità.
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