Da qualche anno a questa parte, forse da quando sono diventata mamma, ho iniziato a prendere i taxi con più frequenza. Un tempo li consideravo un lusso e vi ricorrevo solo in caso di estrema necessità. Al di sotto dei trent’anni non ricordo nessun tragitto in taxi degno di nota, con l’eccezione del tassista che schiacciava un pisolino tra le curve della circonvallazione a monte di Genova. “Eh, sa a quest’ora il colpo di sonno” si era giustificato quando mia madre l’aveva apostrofato con piglio deciso. Da allora avevo evitato i tassisti come la peste. Poi con il passare del tempo, ho iniziato ad apprezzare quei tragitti che si sono trasformati in indagini antropologiche se non sociologiche. Niente di meglio di un tragitto in taxi per tastare il polso di un paese. In questi anni sono giunta alla conclusione che in taxi non ci si annoia mai. Alcuni tassisti sono particolarmente loquaci e offrono volentieri consigli, punti di vista, informazioni sulla società e sull’economia locale. Insomma da quando ho scoperto questo aspetto sociologico dei taxisti ho incominciato a spendere più volentieri gli euro, i pesos, o i CUC, persino le sterline. E iniziamo proprio da questa valuta. Si sa che i trasporti in Inghilterra sono particolarmente cari. Magari si trova un volo low-cost per meno di venti sterline, ma poi per arrivare a destinazione se ne spendono ben di più. Cosa deve fare allora un’allegra combricola di quattro persone, due adulti e due bambini? Affidarsi a un taxi, ovviamente. Non solo è più comodo, ma costa decisamente meno rispetto ad altri mezzi di trasporto. Ed ecco che ci accingiamo al ritorno. Dal centro di Londra ci spostiamo verso Gatwick. Alzataccia prima delle 6 per evitare il traffico intenso. Il tassista è loquace ed inizia a spiegarci come funzionano gli orari di lavoro nella City. Insomma se non ci si muove prima delle sette si è fregati. Da lì inizia una serie di considerazioni sullo stile di vita dei londinesi, sulla disintegrazione della struttura famigliare, sul ruolo delle donne lavoratrici. A questo punto sorge un dubbio. Ma da dove verrà il nostro Caronte abituato a traghettare anime tra le bolge di questo traffico infernale? Il tragitto per l’aeroporto è lungo e un po’ distratta dai ragazzi con cui condivido il sedile posteriore azzardo la domanda di rito: “Where are you from?” Non colgo subito la risposta. “Afghanistan?” ripeto quasi a pappagallo con una certa incredulità. A quel punto il mio consorte si irrigidisce. Tre di noi viaggiano con passaporto USA, possiamo far finta di niente, ma l’accento ci tradisce. Mi premuro subito di comunicare che siamo italiani, ma avendo soggiornato per qualche tempo in America marito e figli hanno un accento impeccabile. In ogni caso viviamo in Canada. Non sia mai che il tassista decida di scaricarci al bordo dell’autostrada dimostrando il suo dissenso nei confronti della politica estera americana. In ogni caso prevale la curiosità, quando mi ricapiterà di conoscere un afgano? Probabilmente mai, colgo l’attimo per approfondire un paio di concetti e per indagare sulle condizioni di vita delle donne in un paese così tristemente noto per l’assenza di diritti umani. Ha già fatto capire che non è d’accordo con il modo in cui le madri londinesi educano i figli, lasciandoli in asili nido e scuole materne già all’alba. Ci ha ampliamente illustrato il suo punto di vista sul lavoro femminile, adesso voglio sapere cosa ne pensa della situazione delle donne nel suo paese. Cerco di prenderla alla lontana e dico: “It must be quite different.” Ebbene sì, inizia a sciorinare le differenze, soprattutto per quanto riguarda la famiglia. Concordo e cerco di tastare il terreno. “I imagine some things must be changing even with regard to women’s condition and family structure.” La risposta non si fa attendere. Segue una breve lezione di storia a conferma del fatto che ad invadere l’Afganistan non ce l’ha fatta nessuno, né i russi, né gli americani, per poi lasciarci brasati con un’affermazione perentoria: “No other country respects women like Afghanistan!” Non credo alle mie orecchie. Mio marito cerca di farmi segno per evitare che esprima la mia opinione in merito. Anch’io mi rendo conto che è necessario procedere con tatto e con una certa dose di prudenza, però la cosa mi intriga. Devo saperne di più. Rispondo in stile canadese. “That’s very interesting.” Non serve molto di più per farlo parlare. Ed è tutta una lode per il senso della famiglia della sua cultura e per talebani, che, mi spiega, sono studenti. Continua imperterrito a sottolineare il profondo rispetto che la cultura afgana dimostra nei confronti delle donne, delle quali si fa carico con solerzia, non come gli inglesi che le costringono ad uscire di casa all’alba per andare al lavoro ed abbandonare la famiglia e i figli. Sono sempre più perplessa e, diciamocelo, indignata. So che non è il caso di dire ciò che penso perché dobbiamo assolutamente arrivare in aeroporto in tempo. Guardo con interesse i cartelli stradali, sperando che non manchi molto all’arrivo. Ci imbarcheremo per un volo per Boston, ma questo preferiremmo non dirglielo!
Totalmente diversa è stata l’ultima l’esperienza su un taxi londinese. Questa volta arrivavo dalla Spagna per ricongiungermi con il resto della famiglia proveniente dal Canada. Punto di ritrovo un Holiday Inn vicino a Gatwick. Visto che loro facevano circa 9000 Km ed io meno di un decimo, affronto io la circumnavigazione di Londra in autobus e una volta giunta a destinazione mi concedo il lusso di un taxi, unico mezzo per raggiungere il nostro albergo, visto che della navetta gratuita non c’è traccia. Ci ho già messo un secolo per arrivare fin qui, il traffico da Heathrow a Gatwick era particolarmente intenso. A questo punto, volente o nolente, mi arrendo all’evidenza di dover prendere un taxi. Mi stupisce l’aspetto del tassista, capelli biondo scuro e occhi azzurri, decisamente inglese. E’ una specie di reperto archeologico. Strano trovare un autista autoctono tra tutti i pakistani, gli indiani e gli afgani impegnati in tale professione. Sono piuttosto stanca e di malumore. Ho lasciato il sole mediterraneo per ritrovarmi a tu per tu con un cielo plumbeo degno delle migliori giornate victoriane e non sono per niente affascinata da quest’isola così simile a quella in cui vivo. Mi domando perché al resto della famiglia piaccia tanto andare in Inghilterra, ma ormai ci siamo. Mi consolo pensando che tra pochi giorni potremmo tornare al sud, ossia in Liguria. Entro nel taxi e chiedo se posso pagare con la carta di credito. Sono appena arrivata e ho solo pochi euro. Mi pare di notare un gesto affermativo da parte del conducente che si dimostra decisamente poco comunicativo. In spagnolo si direbbe che mi abbia guardato “Con cara de pocos amigos”, con una faccia non proprio amichevole. Non vedo l’ora di giungere a destinazione. Dovremmo metterci meno di dieci minuti, purtroppo però non si può andare a piedi. Emergiamo da un groviglio di autostrade e giunge il momento di pagare. Tiro fuori la carta di credito. “Don’t take credit card” annuncia laconico con un certo astio. Gli ricordo di avergli posto la domanda appena salita sul taxi. Nega caparbiamente. A questo punto gli faccio presente che ci sono solo due soluzioni: 1. Accetta la carta di credito; 2. Aspetta che vada nella hall dell’hotel a ritirare i soldi. Di fronte alla mia logica si spazientisce e dice che può accettare la carta di credito con una maggiorazione del 10%. Acconsento e in perfetto accento cockney, ribatte sprezzante: “And it’s going to be a French credit card!” Capisco che ai suoi occhi rappresento quanto di più odiato dalla perfida albione. Il disprezzo è muto. Non c’è dubbio, sono in Inghilterra.
Stay tuned per la prossima puntata. Destinazione Cuba e lì è tutta un’altra storia.