Ero al mio primo giorno di lavoro in azienda, fresca di laurea e con alle spalle un anno di insegnamento in un ITIS. Ero convinta di aver imparato, negli anni di ingegneria e in quello tra i ragazzi a scuola, tutte le possibili declinazioni del tema del maschilismo, volgarità comprese. L’azienda era grande, una multinazionale italiana. Io ero al settimo cielo, smaniosa di fare bene e terrorizzata per la paura di non essere all’altezza. C’erano montagne di CV sulle scrivanie del personale e loro avevano scelto, incredibilmente, me. Cosa ancora più incredibile, mi avevano proposto il lavoro che io volevo fare.
Computer modernissimi, giacche e cravatte, mobili nuovi e identici dappertutto. Avevo pure una collega donna. Il sogno degli yuppies degli anni ottanta era sotto i miei occhi. Mi avevano dato un’idea generale di cosa si faceva lì e poi avevamo cominciato il giro di presentazioni nell’enorme open space. Non stava andando affatto male. Sui lati nord e sud dell’ufficio si affacciavano, dietro finestre a vetro, i quadri e i dirigenti. Mi presentarono anche loro. In uno di essi, dalla soglia, vidi una scena da cliché. Un omone in giacca e cravatta, giovane e con l’aria sicura, sedeva con i piedi appoggiati alla scrivania e le mani sulla pancia. Dietro di lui se ne stavano altri tre, di altezze diverse, sempre in giacca e cravatta, a fargli da sfondo. Il mio arrivo interruppe la conversazione.
“Questa è l’ingegner XY, ha iniziato da noi oggi” , mi presentò il mio tutor.
“Ciao! ” Salutarono i tre da dietro, dopo la solita occhiata che tutti gli uomini etero, anche quelli repellenti, rivolgono alle donne per decidere se sono carne da letto o no. Io, specialmente nei luoghi di lavoro, non lo sono: nè per fisico nè per atteggiamento nè per abbigliamento. Non ero lì per accoppiarmi; per me potevamo passare oltre. Risposi al saluto.
Il capo alla scrivania ci mise solo la coda dell’occhio per inquadrarmi nella categoria delle non scopabili e puntò lo sguardo sul mio accompagnatore, ignorando del tutto la mia presenza.
“Sei appena arrivato e già ti danno la segretaria?” gli fece.
“Hai visto?” Rispose scherzando il mio tutor.
“Cerca di non metterla incinta.” concluse il tipo seduto, senza mai guardarmi.
Avevo tre scelte: rispondergli per le rime; rispondergli e salire all’ufficio del personale; arrossire penosamente, ingoiare la rabbia e fare finta di niente. Ho scelto la terza via: mi è venuta più naturale. Ero del tutto impreparata ad una conversazione di questo genere in un contesto lavorativo, il mobbing non era ancora stato inventato, volevo disperatamente quel lavoro e lo volevo imparare bene: non ho avuto il coraggio di reagire.
Era una multinazionale: tra i più di mille addetti solo due donne erano inquadrate oltre l’ultimo livello impiegatizio e una delle due era parente del proprietario. Prima ho presuntuosamente pensato, sbagliando, che se non c’erano donne in organigramma era perchè mancavano le competenze. Poi, dopo cinque anni in cui ho visto incompetenti maschi salire agevolmente i gradini dei livelli, ho cominciato a capire che quel primo giorno quell’uomo mi aveva fatto un enorme favore, cercando di chiarirmi quale fosse la politica aziendale in materia di pari opportunità. E io non lo ero stata a sentire e mi ero pure offesa a morte. Non contava niente se, come le mie colleghe d’altronde, stavo alla scrivania fino a dopo il tramonto e davo la disponibilità per qualunque incarico anche se ero già sovrassatura. Non importava a nessuno se parlavo tre lingue che mi studiavo la sera, per conto mio. Sapevo che stavo lavorando bene, pur non essendo perfetta, perché approdavano, tra le mie carte, anche delle belle rogne. E continuavo a picchiare la testa nei muri invisibili che delimitavano i miei confini e continuavo a sperare che prima o poi la ricompensa sarebbe arrivata. Ero giovane, orgogliosa, timidissima e ingenua, ben educata ed ero stata troppo protetta, cresciuta a contatto con persone che non mi avevano mai fatto pensare che le mie capacità intellettive avessero qualcosa a che fare con il mio sesso. Mi sono arresa solo cinque anni dopo quando ho dovuto aprire gli occhi e la ripetitività dei miei discorsi di lamentela con le colleghe aveva assunto proporzioni da nausea e fissazione maniacale. Ho pensato di essere stata sconfitta e di aver perso battaglia e guerra. Ho pensato di essere stata fortunata perché me ne andavo con una professionalità acquisita spendibile ovunque, non avevo mai dovuto firmare dimissioni in bianco e il mio contratto era regolare. Poi ho cominciato a lavorare in un posto in cui il codice etico aziendale non viene solo scritto e sbandierato alle visite ispettive ma messo in pratica. E ho ricominciato a sperare che, forse, un giorno il soffitto di vetro si sbriciolerà in mille pezzi anche in questo angolo primitivo di mondo.
Non si deve fare. Mai. Per nessun motivo. Non si deve scendere di livello. Questa è una guerra da combattere con fatti e azioni, senza perdere la calma. Anche perché altrimenti ti danno dell’isterica o ti chiedono se hai il ciclo. Ma voi non sapete quanto mi sarei piaciuta se, ai tempi, avessi avuto il coraggio di rispondere con un liberatorio, volgarissimo e tipicamente maschile: “Ma vaffanculo”.