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Si è spesso affermato e si continua ad affermare che il segreto della diffusione della nuova fede consisteva anzitutto nella speranza di una beata vita futura, una vita dopo la morte o addirittura una risurrezione fisica, che i fedeli del Risorto appunto proponevano. Ma tutto ciò appare poco convincente. Molti erano i culti orfici, iniziatici, ermetici, misterici che promettevano varie forme di sopravvivenza o di salvezza dell’anima dopo la morte.
Il fatto è che le comunità cristiane, oltre a propagare questa speranza, offrivano concretamente aiuto e sostegno ai meno abbienti o ai miseri – i poveri, gli ammalati, le vedove, gli orfani – per affrontare e alleviare gli aspetti più duri e spietati di un’esistenza individuale e collettiva che, specie a partire dalla seconda metà del II secolo, si era andata facendo sempre più difficile tra crisi economiche, periodi di carestia, crescente insicurezza.
La solidarietà dei cristiani tra loro e la carità anche nei confronti di coloro che non appartenevano alle loro comunità – qualcosa rispetto alla quale i sodalizi pagani erano assenti o inadeguati – fu un potente fattore di conversione. La carità fu esercitata con molta dedizione anche nei duri momenti delle persecuzioni, com'è testimoniato ad esempio dall'attività del vescovo Cipriano di Cartagine al tempo dell’epidemia di peste del 252, e da quanto Eusebio ci racconta a proposito dell’impegno di presbiteri, diaconi e semplici fedeli durante un’altra crisi epidemica, stavolta di tifo, scoppiata ad Alessandria nel 268.
Fra tutte le opere di carità, una delle più rischiose, raccomandate e seguite era la visita a coloro i quali a causa della fede erano stati incarcerati. Cipriano di Cartagine resta comunque un modello di carità si può dire insuperabile: è rimasta memorabile la lettera con la quale egli accompagna nel 283 il dono di 100.000 sesterzi ai vescovi di Numidia, esaltando commosso i meriti della carità.
Con la vittoria del cristianesimo, con il ruolo pubblico già da Costantino attribuito ai vescovi nell'amministrazione delle riserve alimentari a vedove e orfani e poi la decisione teodosiana di proclamare la fede in Gesù Redentore unica licita religio dell’impero, le iniziative caritatevoli si moltiplicarono. Fin dai primi tempi della vita libera della chiesa si affermò la concreta prassi della carità nei confronti dei bisognosi e degli ammalati, come insegnano testi quali la Didaché e le Costituzioni apostoliche. Le offerte venivano raccolte in una cassa comune e si tenevano accurati elenchi dei poveri da mantenere.
La storia delle opere di carità del tempo si può ovviamente ricostruire, dato lo stato delle fonti, in modo alquanto rapsodico: non mancano tuttavia ragguagli significativi. Basilio di Cesarea (vissuto nel IV secolo) fondò immediatamente fuori della cinta muraria della sua città un vero e proprio ospedale, la Basileide. Nelle opere di carità si distinsero Giovanni Crisostomo, Epifanio di Pavia, Cesario d'Arles, Massimo di Torino. A Roma, ormai non più sede imperiale, la tradizione delle antiche frumentationes fu mantenuta dalle frequenti elargizioni di derrate alimentari da parte di veri e propri difensori della città e padri dei poveri come Leone Magno e Gregorio Magno. Era questa ferma convinzione di Gregorio, il quale impiegava costantemente e intensamente le proprietà della sua gens Anicia per alleviare le pene dei meno fortunati e considerava tutte le sue risorse utilitates pauperum, al servizio degli indigenti.
Tratto da Franco Cardini, 'Il pane donato. Piccola storia della carità', Emi, in Avvenire del 10 febbraio 2015.
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