Il 9 ottobre dovrebbe essere giorno di lutto nazionale.
A partire da quella data, ogni 9 ottobre tutti gli uffici pubblici d’Italia avrebbero dovuto esporre il tricolore a mezz’asta.
E invece, negli anni, anche la vicenda del Vajont (caso esemplare come pochi di disastro evitabile, causato dal prevalere di interessi privati su quelli pubblici, dalla facoltà che ad alcuni soggetti viene consentita di farsi Stato) è stato trasformato in una delle tante occasioni in cui questo Paese esibisce quello che gli viene meglio, quello che gli è più congeniale: retorica e ipocrisia.
Fa semplicemente ridere che si parli delle vere responsabilità di quel disastro dopo cinquant’anni da quei fatti, quando tutto era chiaro già allora, prima che quei fatti accadessero.
Erano chiare, per esempio, le responsabilità di chi aveva deciso di costruire quella diga proprio in quel luogo, nonostante i pericoli derivanti dalla presenza di un’antica frana sul versante settentrionale del monte Toc (nomen omen), frana rivelatasi in seguito causa determinante del disastro.
Così come erano chiare le responsabilità di chi aveva rilasciato le autorizzazioni.
Ma, più ancora della posizione della diga, ad aver causato quel disastro fu la natura di autentici criminali di quelli che, nonostante i tanti inequivocabili segnali di allarme (che non facevano che confermare come la caduta di un’enorme frana fosse un evento altamente prevedibile), decisero di continuare in quell’impresa e di quelli che, con la loro complicità, con il loro vergognoso comportamento (che definire omertoso è poco), consentirono che ciò accadesse.
Se, come dovrebbe essere logico, la responsabilità di chi causa un evento disastroso (o per averlo provocato direttamente o per aver consentito che accadesse) fosse proporzionata alla gravità delle conseguenze di quell’evento, appare ancora più evidente la natura criminale di chi si è reso responsabile della morte di 2.000 (!) persone.
Se poi si considera quello che è accaduto dopo il 9 ottobre 1963 ci si rende conto dell’assoluta incapacità di questo Paese non solo di risalire alle reali responsabilità di certi eventi (disastri, stragi), ma anche di colpire duramente i responsabili.
Per non parlare delle larghe, diffuse, complicità sulle quali in questo Paese i criminali possono contare.
Ma c’è un altro dato che il disastro del Vajont mette in evidenza: l’ampia diffusione dell’incapacità di considerare i fatti per quello che sono, senza lasciarsi condizionare dalla fonte, difetto riscontrabile anche in professionisti dell’informazione, come Indro Montanelli.
Anziché analizzare i fatti che la giornalista Tina Merlin riportava ci si concentrò sul fatto che il giornale sul quale quella giornalista scriveva era l’Unità, vale a dire il giornale del Partito Comunista Italiano.
Fu proprio in conseguenza di questa incapacità, di questo difetto, che la vicenda del Vajont fu trasformata in un caso politico, con uno schieramento allineato sulla tesi dell’imprevedibilità, dell’inevitabile fatalità (la storiella della natura matrigna che si ribella all’uomo) e l’altro sul fronte opposto.
Come decretarono le sentenze definitive della magistratura (sulla base delle conclusioni di perizie indipendenti), il disastro del Vajont, uno dei più gravi disastri della storia, era un evento certamente prevedibile.