L'isola aspra aveva in sé il fascino di doni ancora potenzialmente da schiudere. Molte erano le risorse di quella terra, ma poco sfruttate dai suoi abitanti. Quando il popolo arabo si mosse dalle terre del deserto verso le regioni più a nord, incontrò nella sicilia una promessa di benessere e di paradiso. Il loro sapere e la loro cultura rese queste terre colte e fertili.
Il sud di un'Italia che allora non esisteva aveva in comune con questa popolazione un patrimonio di ingredienti e di usi condiviso dalle popolazioni che vivevano intorno al Mediterraneo: facile era stato mettere in comune le somiglianze e mitigare le differenze, da entrambe le parti, in uno scambio che aveva arricchisto conquistatori e conquistati, e che si era svolto in un clima di rispetto ed integrazione che oggi non conosciamo. Il sapere arabo aveva migliorato le condizioni di vita e di salute della popolazione siciliana, e la fertilità genorosa delle terre aveva impreziosito i commerci delle flotte, portando prosperità ambo le parti. Gli arabi avevano lasciato i loro coloni in ogni terra raggiunta, che rimasero nell'isola anche nel periodo normanno, conservando così usi e costumi che tramandarono e diffusero anche tra i siciliani.
Palermo era una specie di paradiso in terra: affacciata su una conca protetta dal mare e abbracciata dai monti, si estendeva intorno ad un fiume che in essa sfociava. Alle sue spalle colline fertili e boschi prosperosi. La sua posizione geografica la faceva una rotta ideale per i commerci ed un crocevia perfetto per i contatti con altre popolazioni. Coltivarvi i prodotti provenienti dall'oriente e moltiplicarne le risorse fu davvero molto semplice. La versatilità e la curiosità della gente fece il resto.
Alcuni commercianti locali traevano vantaggio dalla mescolanza dei saperi, e se ne fecero promotori. La tolleranza giuridica e religiosa, soprattutto nel successivo periodo normanno, fece il resto, dal momento che la gente poteva continuare a condurre la propria vita secondo i propri costumi, e lavorare per un fine nuovo e più vantaggioso.
Gli illuminati conquistatori europei, del resto, avevano ben compreso il vantaggio di non diffondere il malcontento che sarebbe derivato dall'imposizione di usanze nordiche e lontane da quella terra e dai quei cuori.
La bellezza, il fascino, l'industriosità e l'ingegno della sicilia araba esercitava su di loro un fascino senza eguali.
Gli ingredienti di questa ricetta sono tutti arabi, dal primo all'ultimo. Si impreziosiscono di qualche specificità siciliana, come il vino liquoroso.
Il segreto di questa preparazione è blindato tra le pareti del Monastero di Santo Spirito ad Agrigento: fondato da una nobildonna agrigentina, sposa del conte normanno Ruggero Primo, fu trasformato in convento alla morte del marito. Qui lavorarono monache e schiave arabe, specializzandosi nella produzione di dolci e vendendoli per mitigare gli stenti. Ha probabilmente questa origine la diffusione di una ricetta ancora oggi in uso nella cultura magrebina.
Nessuno tranne le monache conosce la ricetta originale. La mia curiosità, di una forza senza eguali, mi ha portato a riprodurla nel modo secondo me più simile, ma senza alcuna pretesa.
I sapori voluttuosi da mille ed una notte sono tutti nella semplicità di questo ingrediente base che è la semola del couscous, che contrasta con i numerosi condimenti. La semola è neutra, e la frutta secca e candita, tra mille pepite colorate, la guarnisce come piccole note musicali. Può non piacere a tutti, specialmente a quelli abituati ad assaporare il couscous nella sua versione classicamente siciliana, ovvero di pesce (sicilia occidentale). Io ritengo che sia da provare: soprattutto accompagnato da una salsa morbida che accarezza teneramente la ruvidità dei granelli.
Per 6 persone:
- semola di grano duro per couscous, 500g
- burro fuso, 80g
- mele golden, 2 grandi
- limone fresco, 1
- cioccolato fondente in gocce, 100g
- pistacchi in granella, 100g
- mandorle abbrustolite tritate, 100g
- zuccata e cedrata a pezzetti, 50g
- cannella in polvere, q.b.
- zenzero in polvere, q.b.
- chiodi di garofano in polvere, q.b.
- noce moscata, q.b.
- zucchero a velo, q.b.
- latte di mandorla, 1 bicchiere colmo
- vino marsala dolce o passito, q.b.
Per la crema pasticcera:
- 1 tuorlo d’uovo
- zucchero semolato, 70g
- amido di grano o di mais, 30g
- latte p.s., 300 ml circa
- buccia di mezzo limone grattugiata (io uno grande)
Mettete la semola in un ampio recipiente, la mafaradda.
Ponetevi accanto una ciotola con acqua e sale ed una col burro fuso.
Incocciàte la semola con entrambi i liquidi, cercando di agglomerarla in piccole palline della grandezza di una testa di spillo, usando un movimento rotatorio delle dita.
Lasciate ad asciugare per qualche ora su un tavolo, ricoprendo con un canovaccio.
Utilizzate l'apposita pentola, la couscousièra, per cuocere la semola a vapore: ponetevela con un solo gesto deciso e copritela con un coperchio, quindi poggiatela su una pentola con acqua bollente nella quale la couscousièra si sieda perfettamente. Nell'acqua di cottura ponete a cuocere le mele a grandi pezzi, sbucciate, i limone a pezzi, cannella intera e altre spezie a vostro gusto.
Cuocetela a vapore per 45 minuti, senza mai rimestare.
Versatela nella mafaradda, irroratela quindi con latte di mandorla caldo e liquore, aggiungendo il liquido poco alla volta (come se fosse un brodo) e sgranando la semola via via che lo aggiungete, con due forchette.
Non aggiungete altro liquido se il primo non si è del tutto assorbito. Non è necessario aggiungerlo tutto, la semola deve risultare morbida ma non "pappetta", e la quantità varia a seconda del tipo di semola e dell'umidità dell'aria.
Aggiungete quindi tutti gli altri ingredienti, frutta secca e spezie, gocce di cioccolato e zucchero a velo, zuccata e cedrata.
Mescolate uniformemente e lasciate raffreddare.
Servite in piccole porzioni, con accanto una salsa all'arancia o con una crema pasticcera lenta.