Anna Lombroso per il Simplicissimus
Una volta in quelle bacheche girevoli di ogni cittadina e borgo c’era sempre la cartolina con il “panorama”, che immortalava una vallata, poche case sparse, un bosco, la strada provinciale. Nel frattempo, da quando era stata scattata la foto, erano venute su ciminiere fumose, ponti e elettrodotti, ma il “panorama” da mandare agli amici lontani restava quello. Come la nostra identità nazionale o almeno la percezione che abbiamo di essa. Passano gli anni, si legittima il fascismo, fingendo che sia più garbato, si dà credito a tecnocrati incompetenti, si dà affidamento alle balle sfrontate di Berlusconi, si eroga indulgenza credulona vaneggiamenti di chi si propone come baluardo dell’articolo 18 e poi vota contro, si attribuisce affidabilità a un partito che annega radici, rappresentatività dell’interesse generale in un farfuglio di europeismo, modernità, innovazione a nascondere l’appiattimento su politiche conservatrici, dissennate, suicide. Lo stesso che dopo aver mantenuto con circospetta cautela un sistema elettorale osceno, adesso lo vuol spazzare via e magari volesse fare lo stesso con il conflitto d’interesse.
E alla fine come gli innamorati traditi e delusi si ripropone il consueto lacerante antagonismo liberatorio tra un ceto dirigente inadeguato, ladro, corrotto, disonesto, incompetente e un popolo virtuoso, e candido, ingannato e tradito, universalmente dedito all’interesse generale e al bene comune.
Non è l’ingenuità che e nemmeno l’innocenza che sostengono questa convinzione antistorica. È semmai la stessa indolenza irresponsabile che coltiva l’indole al disimpegno: che tanto non c’è nulla da fare, che tanto siamo irrilevanti, che tanto vincono i poteri forti, che tanto sono tutti uguali. È di questa stessa pasta avvelenata il continuo riferimento al “mercato”, visto come un dio capriccioso e vendicativo, comunque onnipotente. A forza di figurarlo così, col barbone bianco e l’occhio crudele, si sono persuasi che sia davvero invulnerabile, ineluttabile, inderogabile così da censurare non visioni rivoluzionarie, ma perfino l’immaginazione di misure che ne temperino la rapacità, che ne addomestichino l’indole bestiale alle disuguaglianze, preferendo addirittura il rigore di Monti a Bad Godesberg, i balbettii de la Fornero alle riforme strutturali. Ai più incazzati, ai più scontenti, si concede l’adesione liberatoria e compensativa al movimento di Grillo – così poi ci si può mettere d’accordo, e che sono già tutti pronti, come un tempo con la Lega, a riconoscere la costola antifascista da cui è nato, la matrice di sinistra cui si rifà anche se non lo ammette, la tempra di condottiero de noantri, il pregiato radicamento territoriale, la vena pop e al tempo stesso valori arcaici e tradizionali, non ultimo il “giustizialismo” lasciato libero dall’eclissi di Di Pietro.
Si dirà che sono risentita, ma magari l’insuccesso di quello che è stato definito il partito della manette è attribuibile anche alle preferenze date ai partiti degli inquisiti: finti invalidi, corruzione, correità con l’evasione, appropriazione indebita, clientelismi e familismi, con le dovute differenze di qualità e quantità, non sono il tristo monopolio del ceto dirigente, delle cricche, delle cerchie.
Non è una giustificazione, è però una spiegazione l’egemonia del cattivo esempio, che inevitabilmente la trasgressione di leggi e regole come sistema di governo abbia innalzato il limite di tolleranza dell’illegalità, che l’”indulgenza” tramite condoni e scudi diventi costume prima accettato poi desiderato. Non è una scusante ma una indicazione che un’ideologia del consumo di merci e corpi, dell’egoismo e del personalismo, della fascinazione dell’affermazione di ambizione e arroganza come virtù al posto del merito e della competenza, alimentati tramite televisione, informazione si consolidi talmente che la loro privazione costituisce una perdita insanabile, che induce risentimento e ostilità. E è sicuro che l’incertezza di questa età, la paura dell’oggi e del domani, l’impoverimento dei beni comuni e dello stato sociale, minati dal rigore più che dalla necessità hanno sfiancato e indebolito il pensiero, le aspettative, la coesione sociale.
È evidente che c’è una crisi delle èlite, ma c’è anche una crisi di popolo, spaesato, stordito da nuovi bisogni e antiche insoddisfazioni. Eppure è la gente che occupa i suoi luoghi minacciati dall’abusivismo o da grandi opere inutili, che raccoglie firme per cambiare il sistema elettorale, che si batte contro il nucleare e vota per quello o per l’acqua pubblica e vota in sua difesa, che si mette gli sci su un ponte contro gli sprechi, che cerca nuove forme di consumo. Quello condannato ieri è un sistema, non la democrazia.