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Spiegarmelo davvero, intendo, perché io non capisco: quindi sto qui ad ascoltare. Sto qui ad ascoltare, per esempio, che senso ha lodare i meriti di persone che prendono il tuo posto, salvo proclamarsi subito guardiani; lodarle, e appostarsi su una posizione di controllo - e dunque di implicita (o talvolta esplicita) superiorità gerarchica, oltre che intellettuale - come possibili solutori di problemi e poi subito sostenere che questo governo deve servire solo per l'emergenza creatasi mentre io facevo il mio lavoro.
Mi sembra come se io lasciassi il posto a un mio collega per spiegare gli aoristi e le perifrastiche attive e passive che io non ho saputo spiegare ai miei alunni, creando una situazione disastrosa nella mia classe, e poi reclamassi il posto di chi è stato più capace di me. Perché questo tipo di competenze deve essere messe in campo solo quando c'è un'emergenza e una persona più brava non deve guidare anche in un tempo "ordinario"?
Mi viene in mente la pratica del visiting professor, l'esperto di una disciplina, che talvolta tiene dei corsi o seminari mirati ad argomenti specifici di cui è esperto. Ma l'attività di un visiting professor che si rispetti è convalidata, supportata e addirittura esaltata da un percorso didattico ordinario, mentre cade nel vuoto in un contesto poco proficuo di lavoro. Questo un professore lo sa benissimo, ovvero che gli interlocutori vanno preparato alla singolare esperienza di una nuova voce e di un nuovo intervento che cambi rotta. Per questo, credo, Renato Brunetta insiste nel reclamare i complimenti di Mario Monti.
Ciò che invece non si dice è che il visiting professor ha tutto l'agio di non rispondere a certe pretese, con l'alibi di un intervento chirurgico, demandando terapia e prosieguo dell'attività ordinaria alla normale routine, a cui si può dare un contributo, senza però potersi dire responsabili di un intero sistema. Ciò a dimostrazione che le persone competenti, le persone che fanno le cose danno sempre fastidio in un contesto politico - e guarda caso l'accademia è un contesto politico di primo piano, dove governo e competenze sono per lo più scisse (e nella mia esperienza lo sono del tutto).
Governo e competenze si defilano, neanche troppo elegantemente, da qualunque rapporto reciproco. Cultura e strutture, ovvero competenze e loro uso per un progetto culturale, sembrano incompatibili in Italia (e non viaggio seriamente da troppo tempo per discutere di altre realtà). Le abilità dei politici sembrano essere riposte solo nelle doti relazionali ed elettorali: le une molto interessate, opportuniste e ruffiane con i propri simili e discutibilissime quando si tratta di affrontare un uditorio differenziato, portano al successo delle altre. Manca, invece, qualunque riferimento all'attività e alla spendibilità del lavoro e dell'impegno per un interesse comune.
L'Italia è il Paese delle scappatoie: ci si impegna, a trovarle, la fatica che potrebbe essere devoluta a risolvere le faccende (o anche di più), solo che lo si sappia fare: l'accademia così politicizzata non è un centro propulsore, ma un bacino elettorale, un ingranaggio marcio che smentisce la sua origine e l'ancestrale nobiltà culturale del suo disegno. Ma quest'eterna soggezione della cultura (nel senso più ampio, profondo e onesto del termine) alle abilità presenzialiste - e dunque presidenzialiste - fa sì che la cultura diventi una passione poco remunerata e ininfluente. In questa squalifica ab ovo, che piaccia o no, stanno tra l'altro la sua dipendenza e le accuse di cronica vita di elemosina a qualche occasionale estro assistenzialista (sempre rinfacciatissimo).
Da qui, politiche di controllo dell'attività produttiva e culturale che, mentre non colpiscono mai coloro che della cultura fanno una bandiera per prendere stipendi e godere di autorità assolutamente immeritate, di fatto stroncano la creatività di chi prova a mettersi in gioco, sbagliando e - per altro - pagando già in modo carissimo il fallimento di qualche progetto. Parlo da trombato? No, o non so, perché la mia logica non è riposta nella lotta tra chi vince e chi viene sconfitto: nel mio piccolo per quel che mi riguarda, ho sempre realizzato quel che volevo e ho avuto il buon senso o il realismo di non tentare, se non per gioco, strade - come quella teatrale - per cui non ero tagliato.
Però, scusate, per avere questa consapevolezza ci vuole cultura e coscienza della propria ignoranza. Io tutto questo me lo guadagno giorno per giorno e ritengo di avere il diritto - oltre al diritto di pensiero e di parola garantito dalla nostra Costituzione - di guardare con un minimo di curiosità e di interesse attivo - e diciamolo: di speranza - al nuovo governo Monti che si insedia. questa settimana. Non è un governo di sinistra, ma tanto la sinistra non era pronta a far nulla: che almeno la si usi per far numero. E poi, che diritto ho io di riconoscermi nella sinistra, se da quando sono elettore attivo (dal 1993), della sinistra e della destra ho conosciuto solo Berlusconi e i vari Rutelli, Veltroni, D'Alema & co.
Li guardo in faccia, guardo in faccia questi che rappresentano non una tradizione culturale - che amo, rispetto e condivido - bensì la realtà della sinistra in Parlamento e mi chiedo: e io sarei di sinistra? Ci sono risposte più urgenti - perfino per me - della risposta a questa domanda. Ma è solo quando si capirà che porsi queste domande non è un baloccarsi con quesiti di quart'ordine che si potrà parlare davvero di cultura e politica.
Auguri al governo guidato da Mario Monti. E a noi tutti, of course.
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