![czeslaw milosz - trattato poetico - adelphi czeslaw milosz - trattato poetico - adelphi](http://m2.paperblog.com/i/142/1421142/czeslaw-milosz-trattato-poetico-presentazione-L-yt7935.jpeg)
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed enunciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la rivendicazione di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare l'ambiente degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo aver contemplato l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la dimensione ideale per trovare serenità ed equilibrio, senza peraltro sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza espressiva di un grande romanzo storico, l'intonazione nostalgica di un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte di un'epoca, l'accento pacato di una meditazione sulla storia, sull'arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note dell'Autore che chiudono il volume si rivelano una splendida creazione letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa. (dal risvolto di copertina)
(...)Dalla ‘piccola Cracovia, come un uomo dipinto’ a Varsavia, ‘città estranea su una piana sabbiosa’, i toni della poesia cambiano. Si fanno più malinconici e raccolti, ricchi di un peso che si fa man mano più grave: “eh no, lettore, non abiti una rosa / questo paese ha suoi pianeti e fiumi / ma è fragile come il lembo del mattino. / Lo ricreiamo noi giorno per giorno / stimando più ciò che è reale / di ciò che è irrigidito in nome e suono. / Al mondo lo strappiamo con la forza, / troppa facilità non lo fa esistere. / Di’ addio a ciò che è scomparso. Ne giunge ancora l’eco. / A noi tocca parlare in modo rozzo e aspro”. Si percepisce nei versi il rimpianto di non poter più parlare della natura, del semplice succedersi delle stagioni, per non tradire l’impegno politico richiesto dalla propria terra. Finché Miłosz non risolve il conflitto con un ultimo, nostalgico gesto. Scriverà nell’ode conclusiva: “molto, molto ci sarà rimproverato. / Perché, pur potendo, rifiutammo la pace del silenzio / […] Invece volevamo smuovere ogni giorno / la polvere dei nomi e degli eventi / con le parole, poco badando al loro / e nostro svanire, scintillando”. Non può far riposare lo sguardo sul paesaggio americano che lo circonda, anche se la tentazione di “costruirsi per sempre una casa nella Natura” è forte; c’è un luogo a cui tornare sempre, e nel momento in cui gli uomini reinventano continuamente i confini geografici, è la mappatura emotiva a ridefinire l’idea e l’anima stessa di una patria. (da una nota di Chiara Condò - Fonte: Cabaretbisanzio.com)
Altre cose di e su Milosz QUI
dalla sezione IV – La natura
ODE
Ottobre.
Sei la mia gioia vera.
Mese delle bacche e degli aceri rossi, delle oche
in volo dalla baia di Hudson nell'aria trasparente,
dei convolvoli secchi, dell'erba appassita.
Ottobre.
Ottobre.
Un tappeto di aghi di pino su strade silenziose.
Il guaito dei cani che seguono una traccia.
Il suono di un richiamo foggiato da un 'ala di civetta,
il frullo di un uccello che sprofonda fra i rami.
Ottobre.
Ottobre.
Scintillio di brina sulle spade
quando a WestPoint, dalle rocce muscose,
un artigliere polacco scorge nella policroma foresta
le giubbe rosso acero dei soldati inglesi
percorrere furtive la pista degli Appalachi.
Ottobre.
Ottobre.
Il tuo vino freddo e cristallino. Aspro
il sapore delle tue labbra su collane di bacche.
Un pelo fulvo di cervo montano ricopre
i tuoi fianchi ansimanti.
Ottobre.
Ottobre.
Cospargi di rugiada tracce rugginose,
soffi in un corno di bufalo sul campo degli insorti.
Bruci piedi scalzi sui pendii collinari
quando si levano i fumi dell'autunno e dei cannoni,
ottobre.
Ottobre.
Stagione di poesia, dell'assoluto ardire
nel cominciare la propria vita a ogni istante.
Mi dai l'anello magico che, rigirato nel palmo,
sfavilla in basso, gioiello invisibile della libertà,
ottobre.
Molto, molto ci sarà rimproverato.
Perché, pur potendo, rifiutammo la pace
del silenzio, i sogni degni di rispetto
sulla struttura del mondo. L'attimo eterno
non ci attirò come doveva, né la purezza dello stile.
Invece volevamo smuovere ogni giorno
la polvere dei nomi e degli eventi
con le parole, poco badando al loro
e nostro svanire, scintillando.
Né il marchio d'infamia che accettammo
era estraneo alle nostre intenzioni:
benché malvolentieri, ne pagammo il prezzo.
Più d'uno ammetterà, se si conosce bene,
d'essere stato come chi
sente cori di voci pur senza sapere
cosa vogliano dire. Di qui la furia,
il piede premuto sull'acceleratore,
come se si potesse nella velocità
fuggire dai fantasmi e dalle voci.
Così trascinavamo dappertutto una fune
invisibile il cui uncino era dentro di noi.
E tuttavia chi lancia accuse sbaglia
se lamentando i mali del presente vede
in noi solo angeli caduti nell'abisso
che mostrano i pugni all'opera di Dio.
Certo, molti scomparvero infamati
perché di colpo scoprirono, come un analfabeta
scopre la chimica, la relatività ed il tempo.
Per altri la rotondità di un sasso
quando lo si raccoglie in riva al fiume
fu un insegnamento. Basta quell'attimo,
o le branchie insanguinate del pesce persico
o, prima che la luna sbuchi da una nuvola,
un castoro che solca l'acqua fonda e sonnolenta.
Perché, se non trova resistenza,
impallidisce la contemplazione. Per il suo bene
bisogna proibirla.
E noi eravamo certo più felici di chi
da Schopenhauer attinse la tristezza,
sentendo giù da basso, sotto la mansarda,
il frastuono di una sala da ballo.
E azione, filosofia, poesia non furono per noi,
come per loro, mai così divise.
In una volontà unica si fusero?
O fu una schiavitù?
Questa è la ricompensa, amara a volte.
E se sbagliando, vivendo solo nella storia,
non otterremo allori duraturi
che importa infine? Ci sono mausolei
e monumenti, ma sotto un unico mantello
nella pioggia di un giorno di maggio
una giovane coppia passa, indifferente
alla propria perfezione, e sempre la parola
destinata a restare sarà solo il ricordo
di labbra semischiuse: mai
quando vollero riuscirono a parlare.
Spiriti dell'aria del fuoco e delle acque
stateci dunque accanto, ma non troppo vicini.
L'elica del battello già da voi ci allontana.
Passiamo oltre il regno di gabbiani e delfini.
Delusa è la speranza che Nettuno
mostri la barba, emerga col tridente
trascinandosi dietro un corteo di ninfe.
Nulla, solo l'oceano che ribolle e ripete:
invano, invano. Il nulla è così forte
che lo vinciamo pensando alle ossa
dei corsari, alle setose sopracciglia
di governatori perforate
da un granchio che cerca nutrimento. Piuttosto
aggrappiamoci al metallo del parapetto
cerchiamo aiuto nell'odore
di smalti, di saponi e colori. Lo scafo
scricchiola nei giunti e trasporta
la nostra follia, l'ambiguità, la fede nascosta,
la sporcizia dell'io, i bianchi volti
di quanti caddero in battaglia.
E dove ci conduce? Non alle Isole Beate.
In me e in te una bufera ha soffocato
la strofa di Orazio. Dal banco di scuola
intagliato con un temperino, ormai
non ci raggiungerà in questo salso deserto:
Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna.[1]
Brie-Comte-Robert, 1956
[1]
già Venere Citerea guida i cori danzanti sotto la nascente luna