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Czeslaw Milosz - Trattato poetico, presentazione

Da Ellisse

czeslaw milosz - trattato poetico - adelphiPubblico in calce un componimento scelto da Trattato poetico di Czesław Miłosz (Adelphi, 2012 - Traduzione di Valeria Rossella) in occasione della presentazione che avverrà a Firenze presso la Fondazione Il Fiore, Via di San Vito 7, Martedì 16 ottobre 2012 alle ore 17.00. Gli interventi saranno di Alfonso Berardinelli, Valeria Rossella (poetessa e traduttrice del libro), Giovanna Tomassucci (docente di Letteratura Polacca all'Università di Pisa). La locandina dell'evento, completa anche di indicazioni stradali, è reperibile QUI)
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed e­nun­ciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la ri­vendicazione di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare l'am­bien­te degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo a­ver contemplato l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la dimensione ideale per trovare serenità ed e­quilibrio, senza peraltro sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza espressiva di un grande romanzo storico, l'into­na­zio­ne nostalgica di un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte di un'epoca, l'accento pacato di u­na meditazione sulla storia, sul­l'arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note del­l'Autore che chiudono il vo­lume si rivela­no una splendida creazione letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa. (dal risvolto di copertina)
(...)Dalla ‘piccola Cracovia, come un uomo dipinto’ a Varsavia, ‘città estranea su una piana sabbiosa’, i toni della poesia cambiano. Si fanno più malinconici e raccolti, ricchi di un peso che si fa man mano più grave: “eh no, lettore, non abiti una rosa / questo paese ha suoi pianeti e fiumi / ma è fragile come il lembo del mattino. / Lo ricreiamo noi giorno per giorno / stimando più ciò che è reale / di ciò che è irrigidito in nome e suono. / Al mondo lo strappiamo con la forza, / troppa facilità non lo fa esistere. / Di’ addio a ciò che è scomparso. Ne giunge ancora l’eco. / A noi tocca parlare in modo rozzo e aspro”. Si percepisce nei versi il rimpianto di non poter più parlare della natura, del semplice succedersi delle stagioni, per non tradire l’impegno politico richiesto dalla propria terra. Finché Miłosz non risolve il conflitto con un ultimo, nostalgico gesto. Scriverà nell’ode conclusiva: “molto, molto ci sarà rimproverato. / Perché, pur potendo, rifiutammo la pace del silenzio / […] Invece volevamo smuovere ogni giorno / la polvere dei nomi e degli eventi / con le parole, poco badando al loro / e nostro svanire, scintillando”. Non può far riposare lo sguardo sul paesaggio americano che lo circonda, anche se la tentazione di “costruirsi per sempre una casa nella Natura” è forte; c’è un luogo a cui tornare sempre, e nel momento in cui gli uomini reinventano continuamente i confini geografici, è la mappatura emotiva a ridefinire l’idea e l’anima stessa di una patria. (da una nota di Chiara Condò - Fonte: Cabaretbisanzio.com)
Altre cose di e su Milosz QUI

dalla sezione IV – La natura

ODE

Ottobre.

Sei la mia gioia vera.

Mese delle bacche e degli aceri rossi, delle oche

in volo dalla baia di Hudson nell'aria trasparente,

dei convolvoli secchi, dell'erba appassita.

Ottobre.

Ottobre.

Un tappeto di aghi di pino su strade silenziose.

Il guaito dei cani che seguono una traccia.

Il suono di un richiamo foggiato da un 'ala di civetta,

il frullo di un uccello che sprofonda fra i rami.

Ottobre.

Ottobre.

Scintillio di brina sulle spade

quando a WestPoint, dalle rocce muscose,

un artigliere polacco scorge nella policroma foresta

le giubbe rosso acero dei soldati inglesi

percorrere furtive la pista degli Appalachi.

Ottobre.

Ottobre.

Il tuo vino freddo e cristallino. Aspro

il sapore delle tue labbra su collane di bacche.

Un pelo fulvo di cervo montano ricopre

i tuoi fianchi ansimanti.

Ottobre.

Ottobre.

Cospargi di rugiada tracce rugginose,

soffi in un corno di bufalo sul campo degli insorti.

Bruci piedi scalzi sui pendii collinari

quando si levano i fumi dell'autunno e dei cannoni,

ottobre.

Ottobre.

Stagione di poesia, dell'assoluto ardire

nel cominciare la propria vita a ogni istante.

Mi dai l'anello magico che, rigirato nel palmo,

sfavilla in basso, gioiello invisibile della libertà,

ottobre.

Molto, molto ci sarà rimproverato.

Perché, pur potendo, rifiutammo la pace

del silenzio, i sogni degni di rispetto

sulla struttura del mondo. L'attimo eterno

non ci attirò come doveva, né la purezza dello stile.

Invece volevamo smuovere ogni giorno

la polvere dei nomi e degli eventi

con le parole, poco badando al loro

e nostro svanire, scintillando.

Né il marchio d'infamia che accettammo

era estraneo alle nostre intenzioni:

benché malvolentieri, ne pagammo il prezzo.

Più d'uno ammetterà, se si conosce bene,

d'essere stato come chi

sente cori di voci pur senza sapere

cosa vogliano dire. Di qui la furia,

il piede premuto sull'acceleratore,

come se si potesse nella velocità

fuggire dai fantasmi e dalle voci.

Così trascinavamo dappertutto una fune

invisibile il cui uncino era dentro di noi.

E tuttavia chi lancia accuse sbaglia

se lamentando i mali del presente vede

in noi solo angeli caduti nell'abisso

che mostrano i pugni all'opera di Dio.

Certo, molti scomparvero infamati

perché di colpo scoprirono, come un analfabeta

scopre la chimica, la relatività ed il tempo.

Per altri la rotondità di un sasso

quando lo si raccoglie in riva al fiume

fu un insegnamento. Basta quell'attimo,

o le branchie insanguinate del pesce persico

o, prima che la luna sbuchi da una nuvola,

un castoro che solca l'acqua fonda e sonnolenta.

Perché, se non trova resistenza,

impallidisce la contemplazione. Per il suo bene

bisogna proibirla.

E noi eravamo certo più felici di chi

da Schopenhauer attinse la tristezza,

sentendo giù da basso, sotto la mansarda,

il frastuono di una sala da ballo.

E azione, filosofia, poesia non furono per noi,

come per loro, mai così divise.

In una volontà unica si fusero?

O fu una schiavitù?

Questa è la ricompensa, amara a volte.

E se sbagliando, vivendo solo nella storia,

non otterremo allori duraturi

che importa infine? Ci sono mausolei

e monumenti, ma sotto un unico mantello

nella pioggia di un giorno di maggio

una giovane coppia passa, indifferente

alla propria perfezione, e sempre la parola

destinata a restare sarà solo il ricordo

di labbra semischiuse: mai

quando vollero riuscirono a parlare.

Spiriti dell'aria del fuoco e delle acque

stateci dunque accanto, ma non troppo vicini.

L'elica del battello già da voi ci allontana.

Passiamo oltre il regno di gabbiani e delfini.

Delusa è la speranza che Nettuno

mostri la barba, emerga col tridente

trascinandosi dietro un corteo di ninfe.

Nulla, solo l'oceano che ribolle e ripete:

invano, invano. Il nulla è così forte

che lo vinciamo pensando alle ossa

dei corsari, alle setose sopracciglia

di governatori perforate

da un granchio che cerca nutrimento. Piuttosto

aggrappiamoci al metallo del parapetto

cerchiamo aiuto nell'odore

di smalti, di saponi e colori. Lo scafo

scricchiola nei giunti e trasporta

la nostra follia, l'ambiguità, la fede nascosta,

la sporcizia dell'io, i bianchi volti

di quanti caddero in battaglia.

E dove ci conduce? Non alle Isole Beate.

In me e in te una bufera ha soffocato

la strofa di Orazio. Dal banco di scuola

intagliato con un temperino, ormai

non ci raggiungerà in questo salso deserto:

Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna.[1]

Brie-Comte-Robert, 1956



[1] già Venere Citerea guida i cori danzanti sotto la nascente luna


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