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Da Atene a Los Cabos, da Washington a Bruxelles: le rotte della crisi mondiale

Creato il 23 giugno 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Antonio Scarazzini

Da Atene a Los Cabos, da Washington a Bruxelles: le rotte della crisi mondiale
In pochi, forse neanche i piu arditi teorici della globalizzazione, avrebbero potuto immaginare che dalle scelte dei sei milioni, e poco più, di Greci andati al voto sarebbero dipese le sorti del sistema finanziario mondiale. Eppure per almeno ventiquattr’ore i leader delle principali economie mondiali, pronti a riunirsi al G20 in Messico, hanno trepidato nella speranza che dalle urne elleniche non provenisse un verdetto di condanna per il futuro dell’euro e, probabilmente, dell’Unione Europea.

Il voto che la scorsa domenica ha premiato la linea conservatrice ed europeista di Nea Dimokratia ha di fatto concesso momentaneo sollievo alla comunità internazionale, attesa ad una decade di consessi internazionali che ha avuto inizio proprio con il G20 di Los Cabos ed avrà il suo culmine nel Consiglio Europeo dei prossimi 28 e 29 giugno.

Samaras giura per la salvezza nazionale… e dell’Europa

Nella serata di giovedì il nuovo governo greco guidato da Antonis Samaras, leader di Nea Dimokratia (ND), ha completato il giuramento di fronte al Presidente della Repubblica Karolos Papulias ed al patriarca della Chiesa greca ortodossa. Il neonato governo può contare su una coalizione composta da Nea Dimokratia, socialisti del Pasok e moderati di Sinistra Democratica: una formazione più snella della precedente con soli quindici dicasteri, nei quali non siederà peraltro alcun rappresentante del Pasok, votata alla rinegoziazione del memorandum sottoscritto con la troijka, pur nell’ambito del convinto “ancoraggio all’Europa” cui Antonis Samaras ha fatto riferimento sin dalla prima uscita da Premier neoeletto.

Siederanno invece ai banchi dell’opposizione i deputati di Syriza, il partito di sinistra radicale che ha infiammato la campagna elettorale con l’intransigente, e quasi dogmatico, rifiuto delle politiche di austerità imposte da FMI, BCE e Commissione Europea.

Emersa come seconda forza già alla tornata elettorale di maggio, la formazione guidata dal giovane e carismatico Alexis Tsipras ha saputo catalizzare, non senza ventate populistiche, i favori dell’elettorato più giovane prospettando la cancellazione del memorandum per trainare la Grecia fuori da un circolo vizioso di austerità e recessione. La crociata di Tsipras, peraltro mai sfociata in palese antieuropeismo, ha scatenato il panico nei mercati e nelle principali capitali europee, Berlino in testa: una volta sdoganato il tabù di una “Greek exit“, l’uscita della Grecia dalla moneta unica, il voto del 17 giugno si è presto trasformato in un referendum pro o contro l’Europa, drammatico dualismo fra la permanenza in una traballante unione monetaria ed il ritorno alla dracma con il rischio di avvitamento in una buia spirale di svalutazione ed iperinflazione.

Il verdetto delle urne, con Nuova Democrazia vincente per meno di due punti percentuali su Syriza, e la pronta formazione di un governo di salvezza nazionale ha portato la Grecia al riparo dalle turbolenze più forti, ma la tempesta ancora incombe minacciosa: i mercati non avrebbero certo gradito un altro mese di scaramucce politiche pari a quelle seguite al voto di maggio e le casse quasi vuote del Tesoro di Atene rivelano l’assoluta necessità dei circa 130 miliardi di nuovi aiuti.

Quali siano i termini di questo intervento è invece materia di discussione: il governo Samaras punterà probabilmente su un allungamento delle scadenze del prestito internazionale, rimanendo per ora legato ad un programma di tagli a pensioni e stipendi dei funzionari pubblici, ministri compresi, da varare entro fine mese per sbloccare la tranche da 8 miliardi di euro. Meno probabile che, almeno nel breve termine, si riesca a pervenire ad un allentamento dei vincoli di austerità, su cui Angela Merkel si è prontamente dichiarata inflessibile: per quanto Samaras e il suo nuovo Ministro delle Finanze Vasilis Rapanos rappresentino l’opzione politica più gradita ai partner europei, la sensazione è che il varo di misure per la crescita possa nascere solo dai tavoli di Bruxelles, una volta superata la resistenza tedesca alla mutualizzazione del debito a livello comunitario.

Syriza rimane quindi alla finestra, pronta ad approfittare di qualsiasi fallimento del nuovo governo e a rilanciare i propri attacchi contro le misure neoliberiste della troijka; ma se davvero, con il voto di domenica, i Greci hanno apertamente dichiarato di sentirsi ancora parte dell’Unione Europea e della moneta unica, una tale manifestazione popolare, insieme di speranza e fiducia, non merita di rimanere inascoltata ai prossimi vertici europei.

G20 in Messico: tra vertici mancati e “muri di fuoco”

Delle vicende europee si è ovviamente parlato al G20 a guida messicana che si è tenuto presso la baia di Los Cabos gli scorsi 18 e 19 giugno: una volta giunti i risultati delle elezioni in Grecia, le pressioni si sono da più parti concentrate su Angela Merkel. Giunta in Messico con il peso di un voto che reclama ora maggiore solidarietà, il cancelliere tedesco ha dovuto affrontare direttamente Mariano Rajoy e le istanze di salvataggio del settore bancario spagnolo, con Mario Monti e François Hollande pronti a ricordare quanto di buono stia nascendo sull’asse Roma-Parigi. Da ultimo un Barack Obama che da giorni ormai premeva per una pronta soluzione della crisi europea, nel timore che il contagio possa imboccare nuovamente la via di Wall Street e dell’economia americana.

Forse proprio le eccessive ingerenze statunitensi nella vicissitudini europee hanno fatto saltare il vertice ristretto tra Obama e i Capi di Governo europei, che comunque non avrebbe potuto incidere oltre nella definizione di una ricetta per la crescita. L’unione bancaria, che pure ha trovato il sostegno del Segretario del Tesoro Timothy Geithner, è emersa come priorità di fronte alla probabile iniezione di 100 miliardi nel sistema bancario: chi si aspettava un piano incentrato su fondo comune di garanzia dei depositi e supervisione a carico della BCE rimarrà probabilmente deluso dalla bozza preparata da Herman Van Rompuy in vista del prossimo Consiglio Europeo, in cui pare trovare spazio solo un ruolo di supervisione a carico dell’EBA, l’autorità europea di regolazione bancaria.

Tutto da definire poi il meccanismo di ricapitalizzazione delle banche spagnole: lo stress test da poco completato stima in 62 miliardi di euro il capitale necessario, quindi inferiore ai cento preventivati dall’Eurogruppo con il placet del FMI ma comunque sufficiente ad appesantire le già debilitate finanze pubbliche spagnole nel caso gli aiuti dovessero passare attraverso un Fondo statale di ricapitalizzazione. Dopo un primo momento di entusiasmo, si è placata l’euforia anche per la proposta avanzata da Mario Monti secondo cui l’EFSF (European Financial Stability Facility) potrebbe utilizzare parte dei suoi 250 miliardi per acquistare titoli italiani e spagnoli sul mercato secondario e abbassare così gli spread. “Paracetamolo finanziario” secondo la Commissione Europea, misura di scarsa lungimiranza politica per chi, come Luigi Zingales, ritiene che solo un aiuto diretto possa tagliare il costo del debito dei Paesi in difficoltà.

La Cina stanzierà da sola 43 miliardi, dieci ciascuno per Russia, Brasile, India e altre economie emergenti: sulle spalle di Angela Merkel e degli omologhi europei pendono ora anche le attenzioni dei nuovi mercati, ben disposti a partecipare agli oltre 1000 miliardi di dollari ora a disposizione di UE e FMI – un primo passo verso l’atteso e risolutivo “big bazooka” – pur di non vedersi trascinati nella recessione da una crisi generata dalle incrinature del capitalismo occidentale.

Vertice a quattro e Consiglio Europeo: una settimana decisiva

Nella serata di mercoledì, la Federal Reserve ha reso nota la decisione di estendere sino a fine 2012 la cosiddetta “Operation Twist“, misura tramite cui la Fed vende titoli del Tesoro a breve termine per finanziare l’acquistito di bond a lungo termine. Obiettivo: ridurre i già eccezionalmente bassi rendimenti dei Treasury bonds decennali, ora attestati attorno a 1,60 %.

A questo si aggiunga la conferma del mantenimento del tasso di riferimento tra 0 e 0,25% sino al 2014. Non un “quantitative easing” vero e proprio, come predetto da alcuni analisti, ma un pacchetto di stimoli che tra giugno e dicembre dovrebbero immettere 267 miliardi di dollari nell’economia – senza aumentare la base monetaria per l’acquisto dei titoli – in risposta ad una disoccupazione che non accenna a scendere sotto la soglia dell’ 8% ed anzi registra per lo scorso mese un aumento di circa 2000 unità tra coloro che hanno fatto richiesta di sussidi per disoccupati. Una mossa che non è passata inosservata sulle borse mondiali, soprattutto perché accompagnata da una revisione al ribasso della crescita negli Usa e dal settimo mese consecutivo di contrazione della produzione industriale in Cina; una mossa che apre comunque spunti di riflessione in funzione dei prossimi vertici europei e di una revisione dei programmi e degli strumenti per la crescita.

Lungi dal proporre una revisione del ruolo della BCE sul modello Fed, ieri (22 giugno) a Roma il vertice a quattro Monti-Merkel-Hollande-Rajoy ha iniziato quantomeno a delineare linee guida per uscire dalla crisi: innanzitutto una prospettiva di crescita, su cui sia investito almeno l’ 1% del PIL europeo (circa 130 miliardi), e passi in avanti verso l’unione bancaria resa impellente dal dissesto del sistema bancario spagnolo. Al contrario delle apparenze, è stata Angela Merkel a vincere il premio “europeista del giorno”, esaltando quasi romanticamente la straordinarietà del progetto europeo e la via dell’integrazione politica. Anche la Tobin Tax, tassa sulle transazioni finanziarie che dovrebbe fornire più risorse al bilancio UE, sembra più vicina con Merkel e un Hollande d’accordo nel voler proporre una cooperazione rafforzata (tra almeno un terzo degli Stati membri UE) per ottenerne l’adozione. Molta retorica infine sul tema eurobonds, che Hollande ha voluto diluire in un orizzonte temporale prolungato, e sugli investimenti per lavoro e crescita, sui quali pesa come una spada di Damocle il precedente di una strategia di Lisbona ormai quasi caduta nel dimenticatoio.

The euro in here to stay and we all mean it“, dice Mario Monti in conferenza stampa; l’auspicio è che, al Consiglio Europeo del 28-29 giugno, questo patto per l’euro possa tramutarsi in un’agenda coesa attorno a pochi punti salienti: a) soluzione della crisi bancaria in Spagna e predisposizione di un’unione bancaria dotata di strumenti di controllo e fondi comuni di garanzia per i depositi; b) chiara definizione del modello di tassa sulle transazioni finanziarie, prospettando il reinvestimento delle entrate in investimenti diretti alla crescita ed allo stimolo occupazionale; c) specificazione delle finalità di Efsf ed Esm, nel senso di un’operatività che permetta di ricapitalizzazione direttamente gli istituti bancari; d) rinegoziazione del memorandum per il bailout della Grecia, con un allentamento delle politiche di austerità e prolungamento delle scadenze.

Certo, la messa in sicurezza dell’euro richiederebbe ben di più, come ha tenuto a ricordare Christine Lagarde: la BCE rimane l’unica istituzione potenzialmente in grado di intervenire con strumenti pressoché risolutori ma, senza revisione dei trattati che permettano l’acquisto diretto di titoli, le long-term refinancing operations (LTRO) potranno solo trasferirne l’onere al sistema bancario, senza assicurarne il pieno trasferimento della liquidità nel circuito dell’economie reale come avvenuto per la maxi operazione da oltre mille miliardi di euro deliberata in gennaio. Gli eurobonds, nella forma che mutualizza la parte del debito pubblico eccedente il 60% del PIL – come proposto dal German Council of Economic Experts – rimangono poi l’unico mezzo per ripianare la stortura finanziaria che ha visto convivere una moneta unica con rendimenti diversi sui titoli dei vari Paesi che hanno penalizzato la capacita di finanziamento delle economie che avevano maggiori esigenze di crescita.

Il tempo per le dichiarazioni di intenti e le scaramucce sul modello di integrazione da perseguire è ormai scaduto. Dalla riunione romana dei “quattro” si sono colte alcune direttrici per la soluzione della crisi: se tramutate in obiettivi precisi, quali i punti dell’agenda sopra citata, l’Europa avrà ritrovato il pragmatismo e la risolutezza che ormai da mesi latitano ai tavoli di Bruxelles.

* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)


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