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Da “Febbre lessicale” di Villa Dominica Balbinot

Creato il 03 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da lambertibocconi su novembre 3, 2011

Da “Febbre lessicale” di Villa Dominica Balbinot (un dipinto di Villa Dominica Balbinot)   Vi presento un’autrice misteriosa,  gentilissima  nel dialogo epistolare che ho intrattenuto con lei in occasione del suo primo libro di versi, Febbre lessicale, e tuttavia suscitatrice in me della subitanea impressione che come un manto scuro la avvolgesse un alone retrostante difficile da penetrare: sofferenza, forse? O una conoscenza di forze elevate e ignote? Non so, ma sono certa che non sgorghi da spazi consueti la sua poesia profondamente inquietante, venata di nero e bagnata di sangue; come una sorta di maledizione che va alla ricerca visionaria di uno squarcio di luce, e si snoda emorragica tra misticismo e anatomia, con sguardo a volte ossesso a volte ossessivo. La lingua si costruisce di conseguenza, forzando le parole sulle corde del lapsus, degli inattesi forestierismi, dei ricalchi grammaticali di invenzione, con i quali Villa Dominica Balbinot forgia ed espone il midollo dei suoi versi in modo espressionistico e inverecondo, in una febbre lessicale di radicale spietatezza.

IN CERCA DELL’ABERRAZIONE
Con irrimedibile
- e torta -
disgiunzione della postura
davanti a una stazione
della via crucis
(mio preferito tropo)
mi muovo,
nel rotatorio impulso
impresso da una mola.
In cerca dell’aberrazione
della luce.
E NE SAREBBE STATA AFFETTA
Era l’odore della terra in fiore:
la sua splendente bellezza permaneva
le faceva amare cose inermi

Si sentiva tutta riarsa
- e con suo stesso orrore -
fino al midollo
di una sua magra esistenza selvatica.
Ogni cosa appariva troppo fredda,
troppo ampia – e desolata.
Ora si aspetta tutto dall’uomo
come una mattazione,
l’abisso oltre il giardino.
E ne sarebbe stata affetta,
da quei vivi – mutilati e imperfetti-
dai cumuli di piccole celle,
da una minima contaminazione dell’aria.
(era il lieve velo della polvere,
dei fiori che andavano essiccandosi…)

NELL’AZZURRA FIORITURA
Nell’azzurra fioritura del suo recesso
(meraviglia vi era stata
- all’inizio -
dell’immacolata bellezza)
i fiori erano ormai scuri per l’ombra della notte,
come alghe viola le ombre stesse.
Le parole dunque scritte
- attorno al conclave cadaverico -
erano fragili,
lei le trasformava in due ustioni
fin nel labirinto osseo, lì in fondo:
il nero dei cani neri,
e quello stretto laccio
(nemmeno la più piccola pulsione di sangue,
vi era).

TUTTI QUEI DESERTI ROVENTI
Nella luce cruda dell’alba
(nei deserti roventi)
era scaduto il tempo vincolato,
faceva ora la scoperta dei recessi;
enormi ninfee galleggiavano mostruose,
e tutto era inconsueto, troppo dolce,
troppo grande…

La crudezza del mondo era tranquilla,
profondo era l’assassinio,
prima che potesse accadere
veramente qualcosa
(nella sovrabbondanza dell’azzurro)
qualcuno doveva fermare le mani sanguinarie
strappandola via dalla risacca,
dai fiumi della perdita.
Ora amava con repulsione,
con le bocche che parevano piaghe,
il suo era un sentimento funerario,
sarebbe stata costretta a baciare il lebbroso
per fare più bella la cenere dei morti,
fra i profumi delle tuberose.

“Oh,
Ma il giudizio verrà…
Lui non può macchiarsi,
lasciandola alla sua follia:
la decomposizione sarà profonda, profumata…
Qui dentro ogni cosa è crudele,
un fuoco madido.”
(Eppure il mondo sembrava suo
- il perituro, il suo -
tutti quei deserti roventi.)

E LE PAREVA DI NON AVERE MAI FISSATO
Era il paesaggio chiaro,
di una notte ghiacciata:
aspettava solo il sorgere del sole,
e quelle colline azzurre,
il cielo come un grande uccello…

E le pareva di non avere fissato
mai nulla così a lungo
- come quinte nella nebbia -
quei meccanismi dell’affezione
e l’armamentario della sventura
(non sei mai stata condannata
per nessun crimine, vero?…)
i finimenti umani, tutti.
Non aveva mai capito la natura dei veleni,
le leggera punta di amaro delle tossine
e con quel bel fiore che cresce fin sotto la forca,
le mandragore e l’assa foetida
ben oltre la barriera ultima degli alberi azzurri…
Queste le annotazioni dell’anamnesi:
“Bisognerebbe scuoterti,
quel tuo corpo è teso a arco,
sangue vorrà altro sangue allora,
- e comincerà la agonia”.
Consacrata a un dio che non conosceva
con mani profane gli si adunghiò,
era in condizione di privazione,
doveva fare in modo che non fosse lei,
a stringere il laccio.
(Lui le disse solo,
che sembrava consumata.)

E ALLE VICINANZE – INFETTE -
Dai teatri di ferocia
- e dei furori -
dai tramonti lacerati di quei tempi
(tanti tempi, tante sevizia)
si era poi finiti
- simile a un atto di perdizione -
nel regno inclemente e meschino dell’amore…
(…Io l’avevo profetata, l’affezione triste!…)
Non restava che fare assegnamento
su quelle certe eccitazioni,
nel toccare una carne
nella propria carne:
gli incordamenti,
le dislogazioni,
quel formicolio di pelle in pelle,
e per ogni dove i segni del corrotto,
le enumerazioni dei sintomi, i medesimi
(e quella furia nelle sommessioni,
alle vicinanze – infette -).
Era stato poi
come un ristagno,
il loro fatidico silenzio,
e in un olezzo da affogati,
(cose, oh, cose…
cose da far récere i cani)
a forse infondere alla città morta
quella fatale frenesia,
una apocatastasia,
e pure con certi inequivocabili segni,
quelli degli ossidi finali.

AVEVA DATO NELLE SUE PRIME ISMANIE
Aveva dato nelle sue prime ismanie
nel curare le piaghe
(morbilità scave, piante mutanti)
durante quel divampare del morbo:
le dissordinavano tutto,
gli ingorghi delle glandole,
con l’inferma immaginazione
tutta piena di una secreta idea,
lei inquieta della sua inquietudine,
sotto la sferza del malcreato
- a mangiarla viva.
Con ortografia fantastica
era andata continuando,
a squartare lo zero,
- che l’abbruciava -
e discopriva poi il dissepolto solo:
certe tisiche rose
arrampicate all’inferriata,
quei malefizia che serravano il corpo
come scaglie di testuggine,
e infine i dodici fascicoli bianchi
grandi come lastre di pietra
(e non era già più maraviglia,
ma principio morboso,
l’innominabile cosa).

E NELL’ATTESA – VUOTA -
Nella sua erranza le sembrava
di essere all’interno di un tamburo
percosso da un folle,
un’esile transitoria ghiandola,
un’apnea di sangue,
diffratta
nell’assoluta latitanza del salvifico.
Nel dire – bianco – del silenzio
ribatteva – lei – con lapidei
florilegi argomentali,
costretta alla bellezza gelida dell’alabastro,
tra le ossa biancheggianti fra i rovi
( e nell’attesa – vuota –
che la iconostasi si aprisse).

SULLE SOGLIE DILAVATE
Nel mistero dell’esatto
polo opposto
ormai consunto è il tempo,
sulle soglie dilavate
dal crepuscolo,
- e dalla sabbia.
Assumo allora una neutralità
appannata, rattesca,
dello stesso inesorato grigio
della superficie strutturale,
ove tutto odora di calce bagnata,
e di fresco limo.
Tra breve ha da essere distacco,
nell’eresia dell’alba.

IL NUMINOSO
Calamita dell’anabasi,
con uno spessore di mutismo
- e nel ruolo ancillare
di oggetto inanimato -
a ritroso e controcorrente
vado alla ricerca del numinoso,
tra la muta dei predatori

LAVACRO
Nella gora
di anonimo mucchio
di mutanti,
tra turbinii
di polvere gialla
- e pensieri
di devozione canina -
abito in una mia
luna silenziosa,
capitolata fin dentro
i dialoghi dell’inespresso.

Villa Dominica Balbinot partecipa al lit-blog collettivo viadellebelledonne.wordpress.com
Suoi blog personali sono inconcretifurori.splinder.com (poesie); dellidrairacconti.splinder.com
Il suo blog cumulativo è villadominicabalbinot.wordpress.com


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